254, 254 pp.
Romanzo della saga Malaussene dotato di grande intreccio, di quel tipo dalla precisione geometrica a incastro che ultimamente avevo trovato ne "Casa del sonno" di Coe.
Pennac è giocoso, inizia una serie di paragrafi sempre con la stessa frase, usa la parola "cazzo" come in ogni buon poliziesco, dà pensieri divertenti ai cattivi. E ficca l'oppio, l'eroina e il controllo delle armi individuali nelle città moderne in modo curioso tra l'indipendentismo postcolonialista e la questione della solitudine degli anziani. Fornisce il protagonista di un lavoro improbabile (il capro espiatorio ufficiale), di una famiglia incomprensibile (non c'è un padre, la mamma è incinta di non si sa chi) e di adorabili tendenze filantropiche (la casa si trasforma in un ospizio).
Il romanzo è costellato tenerezze tanto assurde quanto perfettamente realistiche: tra colleghi ispettori di polizia (Pastor e Thian), tra anziani e bambini (la vedova Ho e Verdun o anche Risson in veste di narratore), tra amanti (Julie e Malaussene), tra buoni e cattivi (Vanini si protende "tutto amore" verso la vecchina che lo fredda). Direi che il romanzo oscilla musicalmente tra la sparatoria e la sdolcinatezza senza soffermarsi sulla via di mezzo. Spassosissimo e divertente per ogni lettore.
