V cimento letterario bookcorsaro: i racconti!

Ecco dove segnalare un ritrovamento o un appuntamento e/o un'iniziativa che riguardi il Bookcrossing.
ATTENZIONE: NON mettete qui annunci generici che non riguardino il Bookcrossing, che hanno le loro aree apposite!

Moderatori: -gioRgio-, vanya, lilacwhisper

Rispondi

quale racconto preferisci?

Sondaggio concluso il gio mag 29, 2008 11:42 am

1. Le bambole di Luciana
3
11%
2. Memorie di Ulf Kritzkawsky, in arte Long John
7
25%
3. I cieli non sono più quelli di una volta
7
25%
4. Fuoco
1
4%
5. Donne, dududù
8
29%
6. Cent'anni di donne
2
7%
 
Voti totali: 28

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V cimento letterario bookcorsaro: i racconti!

Messaggio da liberliber »

Quinta edizione del cimento letterario bookcorsaro:
viewtopic.php?f=43&t=20475
ecco a voi tutto quanto è pervenuto alla giuria. Votate e NON commentate che la giuria stavolta valuterà contemporaneamente a voi :D

Ricordiamo che i racconti devono rimanere anonimi fino al termine delle votazioni e cioè il 29 maggio (il 27 per la giuria).

Il tema scelto era:
1908-2008 cento anni di donne

rinnovo: NON COMMENTATE!
Ultima modifica di liberliber il mer mag 14, 2008 11:59 am, modificato 7 volte in totale.
Ho potuto così incontrare persone e diventarne amico e questo è molto della mia fortuna (deLuca)
Amo le persone. E' la gente che non sopporto (Schulz)
Ogni volta che la gente è d'accordo con me provo la sensazione di avere torto (Wilde)
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1. Le bambole di Luciana

Messaggio da liberliber »

1. Le bambole di Luciana

Pronto studio ? Si ,..ora vi sento anch'io . Buongiorno ai telespettatori .
Siamo qui oggi per visitare LUCIANA , la fabbrica di bambole di silicone più famosa al mondo . La peculiarità di questa fabbrica – o come direbbe meglio la sua direttrice centro creativo femminile – è quella di non essere solo tutta composta da donne ma anche la filiera produttiva è basata sull’universo al femminile . Proprio oggi qui si celebra il centenario della nascita di Luciana - che ai primordi si chiamava Isolde , come la nonna dell’attuale proprietaria , prima donna in Europa che all’epoca ebbe l’idea di creare un luogo di lavoro per ragazze-madri e orfanelle . Da una fabbrica dedicata alla solidarietà verso le donne sfortunate , e che si basava soprattutto sulla manualità , si è passati ora , con l’avvento delle nuove tecnologie introdotte dalla nipote Luciana , a far diventare il lavoro in fabbrica come appunto vi dicevo prima : un centro creativo liberato dalla schiavitù del lavoro manuale, sostituito dalla pura libertà di espressione concettuale di ogni lavoratrice . “Il lavoro libera la donna “ è il motto di Luciana , che da tutte noi è per questo chiamata Lucky Luciana .

<<Linea di nuovo allo studio per la telepromozione – che oggi riguarderà la nuova linea primavera-estate delle bambole LUCIANA>>

Eccoci tornati di nuovo in diretta , ora siamo entrati nello studio di Lucky Luciana ad intervistare la donna di cui tutti parlano .

D: “Cominciamo dal motto : come l’è venuta questa idea geniale ?”

LL: ”Mi creda , non è interamente opera mia : l’ispirazione mi venne quando vidi una vecchia foto lasciatami da nonna Isolde , e che ritraeva l’ingresso del vecchio saponificio ; un suo vecchio pallino fallito miseramente , forse anche perché gli impiegati erano sia donne che uomini . E questo non fa parte delle tradizioni di famiglia”

D: ”Si certo , ma gli uomini avranno svolto un seppur minimo ruolo nella storia di LUCIANA ?”

LL: ”Nella mia sicuramente no . Guardi , io non conosco nemmeno mio padre ! sono stata concepita in provetta : mia madre fu un premio Nobel precursore della fecondazione artificiale .“

D: ”Capisco , ma intendevo soprattutto nella storia della fabbr.. pardon ! del centro creativo LUCIANA “

LL: ”All’interno di quella che considero una mia creatura tutto è a misura di donna e per la donna . Abolendo il lavoro pesante con l’introduzione della meccanizzazione tutti i lavori possono essere svolti da donne . Certo , il lavoro manuale non è stato abolito del tutto , ma viene svolto a rotazione dalle operaie . Esempio classico è la pulizia dei gabinetti aziendali che viene eseguita a ritmo di musica , la preferita dal gruppo di turno . Me lo faccia dire chiaramente : alla LUCIANA non si vede l’ora di pulire i cessi ! e si risparmia anche sull’iscrizione alla palestra rimanendo in forma . Dietologo ? Addio !”

D: ”LUCIANA sembra essere all’avanguardia anche nei corsi aziendali di incentivazione alla produzione …”

LL: ”Da anni le nostre lavoratrici partecipano ai corsi aziendali da cui facciamo emergere risorse innovative che poi integriamo nei processi produttivi . Le operatrici formate ai corsi sui fiori di Bach e sull’omeopatia hanno perfezionato la pasta al silicone che da forma alle nostre bambole in modo da renderle simili ad un essere umano . Determinante per dare il colpo decisivo alla concorrenza sono state poi le specialiste in medicina ayurvedica e reincarnazione , che ci hanno permesso di essere i soli ad aver immesso nel mercato bambole di silicone che si muovono proprio come noi umani . Ancora non parlano bene ma dai corsi sullo spiritismo e chiaroveggenza ci attendiamo sviluppi a breve che colmino questa lacuna . Che d’altronde non è poi così grave : le bambole devono solo sembrare vere , se parlassero dovrebbero esprimere anche idee e concetti . Insomma , le bambole al silicone somigliano assai di più alle donne che mia nonna Isolde liberò col lavoro cento anni fa .”

D:” Intende dire che le vostre bambole sono il simbolo della emancipazione femminile ?”

LL: ”Da un certo punto di vista penso che abbiamo realizzato il vecchio sogno femminista della parità fra uomo e donna . Mi spiego . E’ sbagliato considerare le nostre bambole come esseri umani , noi consideriamo le donne come esseri umani . E quindi quando si sente dire di una bambola stuprata , squartata , licenziata o umiliata sarà solo un danno economico per l’acquirente dell’oggetto . La dignità della donna è salva tramite la mistica del profitto , di cui pure abbiamo l’esclusiva in collaborazione con un dipartimento universitario di economia teologica creato ad hoc . “

D: ”Perché questa idea innovativa non è mai venuta ad un uomo ?”

LL: ”Semplice : l’uomo ha sempre giocato solo con bambole in carne e ossa , e poi la donna possiede da sempre un laboratorio interno per generare esseri umani , il maschio può solo clonarsi interinalmente . Insomma noi donne abbiamo un vantaggio tecnologico intrinseco e questo è il fattore che ci ha permesso di arrivare prima sul mercato .”

D: ”E come la mettiamo coi sentimenti ? con l’amore ad esempio .”

LL: ”L’amore non crea valore aggiunto nel mercato delle bambole di silicone . Il nostro prodotto può svolgere funzioni assai ricercate , come starlet , showgirl , badante , cameriera o prostituta . E’ quindi fatto ad arte perché non debba pensare ed esprimere emozioni o richieste , se non quella di alimentarlo adeguatamente col sistema ®EGINA MIDA , brevettato dal nostro reparto di tecnica alchimistica , il quale permette di trasformare l’oro introdotto nella bambola dal possessore in tutto quanto può fare la felicità del nostro cliente . E tutto ciò senza le noie della bambola di vecchia concezione : addirittura nei momenti di riposo si pulisce da sola , quindi subito pronta per un nuovo utilizzo .”

D: ”Insomma più ragione che sentimento nella donna moderna”

LL: ”Vede , anche lei cade ancora nello stereotipo della donna oggetto . Cosa c’entrano i sentimenti in un corpo di bambola ? La donna da sempre genera l’uomo con il sentimento dell’amore , ma è solo LUCIANA che da la vita alle bambole senza sentimenti . O ha nostalgia di come si stava ai tempi di sua nonna ? “

Primopiano sull’intervistatrice << Linea allo studio per la pubblicità >>

Fuorionda . L’intervistatrice : <<Basta !! Stop! me ne vado , fate continuare la trasmissione alla caporedattrice , ché la geniale idea del cazzo di intervistare ‘sta scema nazista ce l’ha avuta lei , che si prenda le sue responsabilità , io non continuo . Stop . Chiuso !>>

§

- Luciana ! Ohi , sveglia !
- Nonna , che c’è ?
- Urlavi nel sonno , mi chiamavi Isolde …
- Sognavo , scusa …

Devo cambiare mestiere , per una donna fare la precaria in una fabbrica di falli di lattice non è sano . Se poi lo venisse a sapere la nonna …
Come è triste la realtà però , è un po’ come i brutti sogni .
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2. Memorie di Ulf Kritzkawsky, in arte Long John

Messaggio da liberliber »

2. Memorie di Ulf Kritzkawsky, in arte Long John

Mi chiedo se ancora oggi arrivare a New York sia così eccitante come fu per me nel 1924.
Avevo 16 anni e guardavo emozionato, dal ponte del piroscafo, la città che mi avrebbe accolto. Rimasi soltanto qualche giorno nei dintorni del porto; sapevo che avrei dovuto affrontare una vita dura ma, con l'incoscienza del ragazzino che ero, rischiai gli ultimi soldi rimasti per pagarmi il viaggio verso la California.
Sul treno divoravo le ore ripensando ad Alenka, una cameriera in servizio sul Baptiste II, la nave che, da Rotterdam, mi portò in America. Alenka serviva, sotto ogni punto di vista, il comandante e, durante la traversata, mi insegnò i segreti del piacere. Se oggi sono chi sono lo devo anche a lei.
In tanti mi hanno domandato come fosse girare un film porno a metà degli anni '20 ed oggi siamo rimasti in pochi a ricordare gli inizi.
Che strano periodo fu quello! Giunsi nella mia nuova patria pieno di voglia di fare e di energia ma mai avrei potuto fantasticare di ritrovarmi, dopo poche settimane, a far parte della Hollywood clandestina. Fu per caso: stanco delle bettole che frequentavo iniziai a gironzolare intorno ai locali di lusso e fui notato da una spettacolare bionda che, dopo avermi accolto in casa sua, mi introdusse nel giro del cinema pornografico. Fu lei che mi fece assaggiare il whisky per la prima volta e fu sul suo corpo.
Avevo avuto la fortuna di essere notato da una vera star del settore, ammirata da tutti e molto potente. In un periodo in cui le donne avevano ottenuto solo da pochi anni il diritto di voto, sul set invece vedevano esaudito ogni loro desiderio.
Mi trovai a far parte di un mondo di cui nemmeno immaginavo l'esistenza, un mondo in cui politica e affari si mescolavano con disinvoltura sulle note del charleston. Quei film si giravano di nascosto, con la complicità dei pezzi grossi che, se da una parte deprecavano quella che chiamavano “decadenza dei costumi”, dall'altra erano in prima fila alle proiezioni private sulle colline di Hollywood, come erano tra i più affezionati clienti dei locali clandestini in cui si ballava e si beveva fino al mattino. Le sfavillanti attrici del muto mi facevano arrivare a casa casse di whisky in cambio di qualche grammo di cocaina.
Nei nostri film non c’erano didascalie, ovviamente: su sfondo nero a lettere bianche testi come “Ohh! Sìì! Ancora!” sarebbero stati ridicoli. Ah! Te l’immagini?
In quel periodo stavo soprattutto con Gemma, una ragazza italiana arrivata negli Stati Uniti, come me, per scappare dalla fame e che si ritrovò in uno dei miei letti a chiedermi tenerezza davanti ad una cinepresa.
L'avvento del sonoro ci costrinse a rivedere tutto il nostro lavoro: iniziammo a produrre film parlati, se ricordo bene, nel 1929, “l'anno dei forti mal di testa” per me che, molto giovane ma con le idee chiare, già mi occupavo del casting. Il sonoro creava grossi problemi perché le attrici o avevano la voce bruciata da alcool e sigarette o esageravano, rendendo i loro orgasmi una buffonata. Ma una davvero brava la trovai: si chiamava Lucy. Era americana e quindi rappresentava un vantaggio al momento dei pochi dialoghi presenti nei film. Molti altri attori furono rovinati dal sonoro a causa del loro accento; noi stranieri eravamo tanti e quell’industria era cresciuta grazie a noi poveri immigrati che, per inserirci in quel nuovo mondo, altro non potevamo che scopare davanti ad una cinepresa, troppo ambiziosi per preoccuparci del pudore.
Lucy era bellissima oltre che eccitante. Era mora e grassoccia, una bellezza deliziosamente pericolosa con una voce eterna che faceva impazzire i maschi in sala. Di lei mi innamorai sul serio e soffrii quando fu uccisa. Di questo non voglio parlare.
Un'altra grande innovazione ci fece ripartire con nuovo entusiasmo: le grandi dive del porno iniziarono a mostrare agli occhi del pubblico le sfumature del sesso a colori. Quanti soldi si fecero allora! Era veramente un'epoca d'oro e tutti noi potemmo godere del colore di quei soldi.
Nel '45 sposai una ragazza inglese. Si chiamava Eva ed era la segretaria del mio produttore. L'amavo perché era timida e credeva in Dio. Fu lei a farmi abbandonare il set: diceva di volermi soltanto per sé. Per Eva lasciai i letti degli studios per dedicarmi solo quello di casa nostra, ma non durò molto. Il mio amore per le donne mi fece tornare al mio vero mondo, quello fatto di letti di scena, di donne che amano davanti ai riflettori.
Avevo ormai superato i quarant'anni e mi dedicai a tempo pieno alla regia ed alla produzione. Giunsero gli anni '60 e con loro la moda delle donne dalle forme morbide e dai capelli dorati, con tanta voglia di arrivare, che incantavano le fresche ed ingenue menti dei giovani universitari.
I primi anni '70 furono l'apice di tutto. La liberazione sessuale, la necessità di buttarsi alle spalle anni di ipocrisie, la voglia di sapere fecero del porno di qualità un'esperienza sociale e culturale e le code fuori dai cinema furono dapprima una sorpresa e poi una grande soddisfazione.
Mi ritirai in tempo, prima del declino, prima dell'avvento dei film a basso costo girati in modo barbaro e senza classe, venduti e consumati in un giorno, senza la gioia ed il divertimento del nostro mondo di coraggiosi e spavaldi pionieri senza patria.
Come mi sento oggi? Solo. Molto solo. Sì, certo, sono ricco, ricchissimo. Ma sento la mancanza di Alenka, Gemma, Lucy, Eva e poi lei ... e lei ... e lei .....
Oggi compio cent’anni. Con me c'è solo Suor Connie che, tutte le mattine, mi accarezza con una spugna tiepida. Mi accarezza dappertutto. Non ci vedo più molto bene, non so che espressione abbia lei mentre mi tocca. Immagino sia solo un lavoro, per lei, accudire questo vecchio silenzioso dallo sguardo vivace e dalle gambe stanche. Ma io chiudo gli occhi e tutto il sapore di questi cent'anni di donne mi riempie di dolcezza.
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3. I cieli non sono più quelli di una volta

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3. I cieli non sono più quelli di una volta

Siamo a letto, e tra poco andremo a dormire, uno accanto all'altra. Come ogni notte da più di trent'anni. Dormiamo sempre mantenendo la stessa postazione. Tu a destra del letto, io a sinistra. Anche il rituale non cambia. Sistemiamo i cuscini, e ci mettiamo a leggere, ognuno dalla sua parte, tu il tuo libro, io la mia rivista. Dopo circa una mezz'ora, tu mi domandi, se nell'ordine ho: controllato di aver chiuso la porta, il gas e spento tutte le luci. Potrei anche non rispondere, sapendo che non è la risposta che t’interessa. I primi anni di matrimonio mi faceva sorridere questo rituale della sera, era tutto “nostro”, ora mi provoca un senso di soffocamento. La cerimonia continua con lo scambio della buonanotte, poi ognuno spegne la propria lampada e si gira dalla sua parte. La notte scorsa, mi sono messa a conteggiare il numero delle notti in cui siamo andati a dormire insieme. Calcolando trentadue anni di matrimonio, quindi all'incirca 384 mesi, il risultato è di 11520 notti. Una cifra spaventosa. A quel punto ho calcolato quante notti ho dormito da sola prima di sposarti, e il risultato dava più o meno la metà esatta di quello passato insieme. Ho avuto la sensazione che mi stesse arrivando un attacco d'asma. Il flusso dei pensieri ha cominciato rapido a scorrere. I primi tempi era bellissimo andare a dormire, era il momento in cui potevamo chiacchierare un po', da soli. I bambini dormivano, e tu mi chiedevi come avevo passato la giornata. Poi, alle chiacchiere, abbiamo preferito la lettura. Ce ne stavamo in silenzio a leggere, ogni tanto uno dei due faceva un commento all'altro. A poco a poco però, anche quel commento è andato perduto. Chiudevamo i libri, ci scambiavamo una buonanotte sempre più frettolosa e c’immergevamo nel sonno. La giornata era piena, svegliati presto, prepara la colazione per tutti, porta i bambini a scuola, fai la spesa, sistema la casa, fai la lavatrice, cucina per il pranzo, vai a riprendere i bambini, portali in piscina o a calcetto, seguili per i compiti, cucina per la cena, mangia, metti tutto a posto, prepara i bambini per la notte e poi finalmente a dormire. Il giorno dopo, lo stesso. Sono stata risucchiata da un vortice, e poco dopo scaraventata nello stesso punto da cui mi aveva prelevata. Io ero la stessa identica persona, ma erano passati più di vent'anni. I figli continuavano a stare in casa, andavano e venivano, ma a pranzo e a cena erano sempre qui, e ci si aspettava continuamente che la casa fosse accudita. A me, il ruolo della badante del focolare, dava un significato alla mia esistenza. Ho sbattuto le ciglia e sono passati altri dieci anni. Tu mi eri sempre accanto. Nonostante il tuo divenire sempre più taciturno, eri una presenza costante. Ma io e te, insieme, non facevamo più nulla. Mai un cinema, un teatro, solo rare passeggiate sotto casa. Ti seccava andare in centro, per la difficoltà a trovare un parcheggio, ti annientava l'idea di un cinema, per gli orari strani, e di andare in campagna ti era passata la voglia. Installata la parabola satellitare, tu sei diventato un tutt'uno con la poltrona e la tv. Eravamo così attivi da giovani, tu eri sempre pieno di proposte. Appena era possibile, mi portavi a vedere le stelle, prendevamo la macchina ed andavamo in un posto fuori città. Arrivati, stendevamo una coperta a terra e passavamo ore intere abbracciati sotto il cielo stellato. Eri così appassionato, conoscevi tutte le costellazioni. La tua preferita era quella del cigno e mi raccontavi le leggende che la riguardavano, tra cui, quella che vedeva Zeus trasformato in cigno, per conquistare le amanti. Un inganno dunque, farsi vedere in un modo, raggiungere l'obiettivo e poi ritrasformarsi in quello che si è. Ora ci noto una particolare analogia con la nostra storia. Con la nascita dei bambini, abbiamo cominciato a non uscire più. Ci siamo fatti trasportare da una passiva quotidianità, senza opporre resistenza. Poi, una sera, una delle tante, siamo andati a letto, tu hai ripetuto le solite frasi «chiuso la porta? Controllato il gas? Lasciato un po' di spiraglio alla finestra?» e ci siamo addormentati. Al risveglio, mi hai scosso il braccio come sempre dicendo «vado a fare un caffè», io mi sono voltata, ma non eri più tu, non eri più lo stesso uomo che avevo sposato. Com’era potuto accadere? Da quanto tempo tu non eri più tu? E soprattutto, io dov'ero mentre tu stavi invecchiando? Come mai non mi sono accorta che il colore dei tuoi occhi stava perdendo quel nero che mi dava tanta sicurezza, e come mai non ho sentito un brivido quando sono comparse le prime macchie sulla tua pelle? Tu stai leggendo. Ti afferro la mano, tu continui a tenerla sul libro, anzi, con il palmo della mia sulla tua, volti la pagina. Lo prendo come un invito personale, voltiamo pagina insieme e cominciamo un capitolo nuovo della nostra vita. I tuoi occhi scorrono tra le righe, immersi nella storia di qualcun altro. «Pensavo...» sussurro. Primo tentativo andato male. Riprovo. «Mi chiedevo...». I tuoi occhi interrompono la corsa tra le righe. Ti volti e socchiudi il libro, tenendo il segno con il dito, sai già che non sarà una conversazione lunga. «Cosa?» mi chiedi. Sei insonnolito e infastidito per aver interrotto la lettura. Vado avanti. «Ripensavo a quando andavamo in campagna a vedere la costellazione del cigno. Era divertente, magari potremmo andare a vedere se è sempre là!». Cerco di mascherare la mia aspettativa facendo dello spirito. Le tue pupille sono diventate enormi, m’ipnotizzano, ho paura di caderci dentro e non fare più ritorno. Mi chiedo se è l'effetto della lampada o se sono state le mie parole. Mi stai guardando, forse ti stai perdendo anche tu tra i ricordi, forse ti stai facendo prendere dalla malinconia. Socchiudi le labbra e sussurri «non ne vale la pena, è lontano, fa freddo, e poi i cieli non sono più quelli di una volta». Con questa frase lapidaria, che non ammette repliche, archivi la pratica. Apri di nuovo il libro e ricominci a leggere. Io decido di fare finta che tu non abbia detto nulla. Mi convinco di non averti mai fatto la proposta che ti ho fatto, e di non aver mai ascoltato la tua risposta. Sistemo il piumone dalla mia parte, posiziono il cuscino e lo preparo per la notte. Tu ed io non abbiamo detto nulla. Mi convinco di avere sonno. Mi stendo, ho la sensazione che tra me e te ci sia un baratro adesso, più profondo del vuoto delle tue pupille. Ma continuo a non pensare. Qualcosa però continua a torturarmi, una frase, che nessuno dei due ha pronunciato, eppure risuona incessantemente nella mia testa «io invece, sono ancora quella di una volta». Mi raggomitolo al caldo, sistemo ancora una volta il cuscino sotto la mia testa, mi volto dandoti le spalle, sibilo «buonanotte» e senza nemmeno aspettare la tua risposta spengo la luce della mia lampada.
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4. Fuoco

Messaggio da liberliber »

4. Fuoco

Esma si svegliò all’improvviso: uno strano bagliore giallastro si rifletteva sulla parete; l’odore acre del fumo le riempì le narici, le graffiò la gola. Esma sapeva che cosa doveva fare; c’erano stati altri incendi nel campo, per cicche cadute sui tappeti o stufette lasciate accese troppo vicine alle coperte. La mamma le aveva spiegato un po’ di cose, perché era la più grande e doveva iniziare a sbrigarsela da sola.
Quella notte la mamma non c’era ed Esma aveva fatto tutto per bene: aveva preparato la cena per i fratellini, poi aveva riordinato e si era fumata un’ultima sigaretta fuori dalla roulotte, prima di crollare addormentata sulla branda ormai troppo stretta per lei. Le stufe erano spente, Esma ne era sicura; si era alla fine dell’inverno e le nottate non erano più tanto gelide.
Però quello che sentiva adesso era il crepitio del fuoco, che si mangiava le ante dei mobili e le tende e si stava avvicinando. Esma radunò intorno a sé i fratellini che gridavano e piangevano, ed uscì veloce dalla roulotte.
Il vento aveva propagato l’incendio, c’erano ovunque persone che correvano e urlavano e cercavano di spegnere le fiamme gettando secchi d’acqua. A quella disperazione Esma unì la propria: c’era ancora Liuba nella roulotte! Lasciò i fratellini al sicuro e si precipitò dentro, attraversando il muro di fumo e cenere.
Nella culla appesa al soffitto, Liuba strillava con tutta la forza della sua piccola voce. Esma la prese tra le braccia mentre le fiamme le vorticavano intorno. Buttàti in un angolo, alcuni rami di mimosa ormai appassiti s’incendiarono come paglia; Esma era stata tutto il giorno al semaforo sul corso a vendere le mimose, ma non era riuscita a finirle.
Le fiamme erano sempre più vicine, quasi lambivano i capelli di Esma; lei si voltò per uscire. Le fiamme erano sempre più alte, stavano divorando la roulotte. I vetri si ruppero, le pareti si accartocciarono, si richiusero sopra i corpi della ragazza e della bambina che morirono abbracciate, strette come a difendersi dal freddo.
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5. Donne, dududù

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5. Donne, dududù

La stanza dell’ospedale era immersa nell’ombra della sera; fuori, la neve biancheggiava sui pini. Dal corridoio arrivava sommesso lo scalpiccio di sandali di infermiere non particolarmente indaffarate, e qualche voce in tedesco dalla tv accesa in una stanza vicina.
Daniela leggeva un libro, seduta su una sedia; Clara si mosse appena, aprì gli occhi con lentezza e la fissò. Lei la guardò a sua volta, con tenerezza e imbarazzo.
“Beh, non mi saluti? Neppure un po’ di stupore?”
La voce di Clara uscì impastata. “No. Sapevo che al mio risveglio ti avrei trovata qui.”
“Ah. Ed è perché lo sapevi, che non mi hai detto niente?”
Clara non rispose.
“Almeno, me lo vuoi dire, perché?”
“Perché cosa?”
“Perché sei qui, perché non ne sapevo niente, perché l’hai fatto. Sono pur sempre la tua migliore amica, no? Avrei dovuto saperlo.” C’era rimprovero, nella sua voce, ma non rabbia.
Neppure stavolta ci fu risposta, e calò il silenzio.
Poi Clara indicò il cassetto del comodino, facendo segno a Daniela di aprirlo.
Daniela ne estrasse un album fotografico; glielo porse.
Clara aprì l’album, e mostrò all’amica, che dovette fissare con attenzione l’immagine per distinguerla bene nella penombra; era una foto color seppia, raffigurava una donna vestita di nero, con un velo dello stesso colore, un’espressione austera.
“Aveva ventisette anni, qui. E’ l’anno in cui rimase vedova; suo marito partì per le trincee sul Carso, e non ne tornò. Fatto sta che lei si ritrovò a crescere da sola sette fra figli e figlie, nessuno di loro cresciuto abbastanza per esserle davvero di sostegno.”
“Sembra una bella donna.”
“Oh, lo era. Infatti ricevette parecchie offerte di matrimonio, ma non ne accettò nessuna. Si offrì di continuare il lavoro del marito; dovette insistere parecchio, suppongo, per fare accettare al padrone una soluzione così inusitata per la Sicilia dell’inizio del secolo scorso, una donna che fa il fattore. Ma in qualche modo la spuntò, e tirò avanti i campi e le bestie da sola fino a che i figli crebbero abbastanza per affiancarla.”
“Sicilia. Mi sono sempre chiesta quali fossero le tue origini familiari. Non avrei mai detto che il tuo cognome Spitz potesse celare origini siciliane ”
“Il cognome lo danno i padri, anche quando sono le madri a fare la storia della famiglia.” Sfogliò qualche pagina, mostrò la foto in bianco e nero di una bambina su una piazza piena di sole di fronte a una chiesa, e poi quella di una donna abbracciata da un uomo di qualche anno più anziano, in divisa da carabiniere.
“Fu una delle sue figlie, la terza, nel dopoguerra, a spostarsi qui a Bolzano. Il fascismo voleva italianizzare questi luoghi, e favorì in ogni modo la migrazione dal meridione. Ma anche così, ci volle un coraggio immenso a mia nonna per partire da sola, con pochi averi in una valigia di cartone legata con lo spago. Accettò lavori umili, andò a servizio, come si diceva a quei tempi, presso una famiglia di funzionari del partito. Poi conobbe mio nonno, il carabiniere, e lo sposò. Lui fu deportato ancora giovane quando, alla caduta del fascismo, si rifiutò di arruolarsi fra le file della Repubblica di Salò; lei lo attese per anni, e quando tornò, segnato e malato, se ne prese cura fino alla fine dei suoi giorni.”
Daniela taceva, osservando le foto a colori.
“Questa invece è mia madre da ragazzina, in gita sui monti. Vedi i calzoni di pelle che porta, come fosse stata un maschiaccio? Lei era il tipo sportivo e indipendente; amava la natura di questi luoghi. I suoi fratelli cercarono impieghi statali o da manovale; lei invece si iscrisse a biologia, e fu la prima a laurearsi in famiglia, maschi compresi. Viaggiò per anni. Qui la vedi quando ne aveva trentacinque; fu allora che conobbe mio padre, è quello sulla Vespa; e di lì a pochi anni nascemmo io e mia sorella.”
“Hai una sorella? Senti, quante cose devo venire a scoprire di te oggi?”
“Non ce l’ho più, una sorella, ma l’ho avuta. Eccola, questa è la sua ultima foto; aveva ventidue anni. Credo che fosse a un concerto di Vasco Rossi, o di Zucchero. Le piaceva, Zucchero; cantava sempre quella coazione, come fa… donne, dududù, hai presente.”
“Sì, la conosco.”
“Lei sceglieva la musica per me, e selezionava i libri; quando avevo bisogno di sfogarmi, lei mi ascoltava.”
Daniela non disse niente, rimirando la foto.
“Fu trovata in campagna, era nuda e portava i segni della violenza. Ancora oggi non sanno chi sia stato. Io so solo che sento la sua mancanza ogni giorno, da allora. E’ a lei che penso, quando devo pensare alla gioventù e alla bellezza.”
Le pagine che seguivano erano bianche.
“Mi hai mostrato solo le foto della linea di discendenza femminile.”
“Perché solo in loro mi riconosco, solo a loro volevo assomigliare.” Disse Clara chiudendo l’album.
“E’ per questo che…”
“Sì, Daniela, è per questo.”
In corridoio qualcuno spingeva un carrello, le medicine della notte.
“Come ti devo chiamare, adesso?”
“Clara. Ti piace?”
“Sì, beh, sì; ma avrò bisogno di tempo per abituarmi, credo. Non ti arrabbiare se mi scapperà Giorgio, di tanto in tanto.”
Guardarono entrambe fuori dalla finestra, per qualche minuto.
“Pensi che sarai felice, ora?”
“E’ possibile che lo sia, da adesso.” Fece tintinnare la boccia della flebo, afferrando la mano di Daniela. “Adesso sono quello che ho sempre voluto essere, anche quando non lo sapevo ancora. Sono nella metà del mondo che amo di più.”
Daniela disse solo “Benvenuta, allora” e strinse piano la mano dell’amica.
Ho potuto così incontrare persone e diventarne amico e questo è molto della mia fortuna (deLuca)
Amo le persone. E' la gente che non sopporto (Schulz)
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6. Cent'anni di donne

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