Ecco dove segnalare un ritrovamento o un appuntamento e/o un'iniziativa che riguardi il Bookcrossing. ATTENZIONE: NON mettete qui annunci generici che non riguardino il Bookcrossing, che hanno le loro aree apposite!
Eccoci qua! Posteremo qui tutti i racconti pervenuti, i primi 3 sono i vincitori poi gli altri sono in ordine RIGOROSAMENTE sparso.
Per favore non commentate qua ma nell'altro thread, grazie
Ultima modifica di liberliber il ven mar 12, 2004 1:01 pm, modificato 1 volta in totale.
Ho potuto così incontrare persone e diventarne amico e questo è molto della mia fortuna (deLuca)
Amo le persone. E' la gente che non sopporto (Schulz)
Ogni volta che la gente è d'accordo con me provo la sensazione di avere torto (Wilde)
I dream popcorn (M/a) VERA DONNA (ABSL)
Petulante tecnofila (EM)
NON SPEDITEMI NULLA SENZA AVVISARE!
Meglio mail che mp. Grazie.
Ho fame...
Ruggisco e mi avvento su ciò che mi circonda. Divoro tutto ciò che mi capita a tiro...
Non devo fare molta fatica, seguo il mio istinto, il mio respiro, mi avvicino alla preda, aspetto qualche secondo... poi come per magia, mi ci avvolgo intorno, la circondo completamente ed incomincio a consumarla, lentamente, dall'esterno poi sempre più velocemente sempre più all'interno finché...
Cosa succede?
Freddo!
Sento freddo!
Che sensazione strana... il freddo. Non l'avevo mai provato prima, eppure lo riconosco subito, non so come dire... Sono quelle sensazioni di disagio che riconosci subito anche se non le hai mai sperimentate prima...
Mi manca l'aria!
Che brutta esperienza, che sensazioni strane... Aiuto! Sto male, è tutto così... così... così bagnato!
Non riesco più a nutrirmi, non so com'è ma non riesco più a mangiare, le mie prede sono lì che mi osservano, impaurite, quasi in attesa dell'inevitabile ma la magia si è interrotta, mi ritiro, sempre più velocemente, mi allontano da tutta quell'umidità. E' un ambiente malsano, non riesco a mangiare, mi manca l'aria, soffoco, tossisco, ruggisco, ma non c'è nulla da fare, mi manca l'aria, me ne devo andare da qui... come faccio ad allontanarmi?
Dove posso andare?
Torno indietro! Ma no! Non ci riesco... maledetta! La sento! Si sta avvicinando... sempre di più! Sento il suo rumore, sempre più vicino...
All'inizio è come un fruscio, che poi diventa uno sfrigolio... Ed eccolo, il freddo! Il freddo e la sensazione che mi manchi l'aria, ma no, non è una sensazione, mi manca davvero l'ossigeno e mi devo allontanare...
Mi ritiro, ma lei non mi molla, mi segue, mi opprime, non mi lascia vivere, vuole uccidermi, sì! L'ho capito il suo gioco, mi obbliga a stare qui, non mi lascia allontanare a cercare nuove prede, nuovo nutrimento, mi circonda e mi contiene... è furba, sa che contro di lei non ho potere, o quasi...
Reagisco.
In fin dei conti, che ho da perdere?
Mi ribello, mi rivolto con una fiammata di collera, che la prende in contropiede, non se l'aspettava! La affronto con tutta la mia disperazione, con tutta la mia paura; ed è così che ingaggiamo un corpo a corpo, quasi una danza, macabra se vogliamo, ma a occhi esterni appare di sicuro come uno spettacolo memorabile. Ma è la lotta per la sopravvivenza, vincerà chi avrà più forza, più resistenza...
Maledetta, si è ripresa in fretta dalla sorpresa del mio contrattacco, ora ha cambiato tattica, non cerca più lo scontro diretto, frontale, non cerca più il corpo a corpo... ha capito che non sono un vigliacco, un codardo, adesso lei sa che sono disposto a tutto pur di non cederle.
Ma ha capito anche che non potrò resistere in eterno senza nutrirmi, e quindi decide di cingermi d'assedio. Mi tiene bloccato qui, ogni tanto mi sferza un colpo sui fianchi, per poi ritirarsi subito, tanto per saggiare la mia resistenza...
Comincio a cedere terreno... ogni colpo mi fa retrocedere di un passo... che sia la fine?
Cerco di allontanare il più possibile i miei piccoli messaggeri, spero che riescano a salvarsi dalla sua furia distruttrice, ma so già che quando avrà terminato con me, non darà loro un momento di tregua...
In un attimo la consapevolezza, che non ho più scampo.
Un dubbio atroce mi assale... E' possibile, mi chiedo, che da predatore che ero, Io sia diventato la preda?
Ma è solo un attimo. Un dubbio esistenziale, che forse assilla ogni essere.
L'ultimo dubbio prima della fine.
Un getto d'acqua ai miei piedi, un ultimo ruggito, poi esalo l'ultimo respiro... un filo di fumo.
Da grande rogo divoratore che ero, di me adesso altro non resta che un tizzone fumante... uno sfrigolio... un filo di vapore e più niente... Maledetta acqua....
Il pompiere chiude la manichetta antincendio, si guarda intorno, poi fa un gesto ai colleghi, anche per oggi abbiamo finito, un altro incendio è stato domato, grazie all'acqua.
La cornice naturale del mare, dell’acqua a perdita d’occhio che si stagliava dietro la finestra e l’odore onnipresente della salsedine facevano ormai parte della sua vita quotidiana.
Nella cucina di Vittorio, invece, buon profumo si sprigionava dalla pentola del ragù; il massimo delle arti culinarie che era riuscito ad imparare in tutti questi anni di cucina autodidatta: maccheroni con il ragù. Il medico glielo ripeteva ad ogni incontro che doveva mettersi a dieta. Ma in fondo e’ Natale e così al diavolo quella maledetta dieta ricca di fibre, legumi e soprattutto acqua. Al solo pensiero Vittorio si sentiva male: non ne beveva molta. D'altronde la presenza di una cospicua collezione di bottiglie di vino, vuote, testimoniava la sua propensione verso l’alcool.
Così, sprofondato nella logora poltrona di finta pelle rossiccia, unica testimone rimasta dei vecchi fasti familiari tanto vanamente ricercati dalla mamma, accese il televisore per seguire il telegiornale locale. La giornalista lanciò come prima notizia il tormentone del mese, arrivato giusto in tempo come ogni anno a ravvivare i timori del popolo consumistico: le bottiglie d’acqua minerale avvelenate. Così dopo gli anni dei panettoni al topicida, che avevano messo in crisi le industrie dolciarie, ultimamente qualche mitomane puntava più in alto. Già, mitomani! Così li stavano definendo i media. I casi erano ormai sparsi per tutta la città. Gli avvelenamenti, disse la giornalista, dopo giorni e giorni d’attenzione mediatica si susseguivano, forse, soltanto per puro spirito emulativo.
I veri terroristi sono i giornali e la televisione, pensò Vittorio con il piatto di maccheroni fumanti sulle ginocchia; media-terroristi, li definiva. Fare tutta questa pubblicità serve solo ad istigare qualche squilibrato all’emulazione, per il solo gusto di far notizia.
Arrabbiato per il troppo clamore, spinse il tasto rosso del telecomando e lo scagliò contro una cornice che si trovava sopra il vecchio televisore. Questa volta, a differenza delle numerose altre volte, cadendo in terra e rompendosi il vetro lacerò la foto. Ormai giallastra, la foto lo ritraeva grassottello e con il viso imbronciato, insaccato dentro una ridicola ciambella azzurra al fianco della mamma, che sfoggiava un’acconciatura ed un trucco volutamente ed ostinatamente pesanti, quanto mai fuori luogo per una giornata d’Agosto da passare in spiaggia.
La raccolse con stessa rabbia, tristezza, ed ansia che condivano quei pomeriggi estivi; costretto dalla mamma a trascorrerli in spiaggia ad ascoltare il concerto dei suoi pettegolezzi ma soprattutto alla mercé dei compagni di scuola. Vittorio era l’unico dei suoi amici a cui il principio d’Archimede non aveva dato alcun beneficio. Fin da bambino aveva odiato il mare ed il nuoto, il sapore salato dell’acqua, il sacrificio dell’apnea, la fastidiosa pressione dell’acqua sui timpani ed i resti della salsedine che piccavano sulla pelle se non correva subito a farsi la doccia o se, come invece accadeva spesso, qualcuno degli altri ragazzini non lo avesse inondato con un gavettone gelato.
La paura dell’acqua, le angherie e gli sberleffi dei suoi coetanei erano il purgatorio estivo che Vittorio si trovava a scontare.
Ogni mattina pregava il papà di trascorrere con lui il pomeriggio e di portarlo su in collina a fare una passeggiata nel boschetto ed una corsa in bici.
Lo sai Vittorio che devo fare il giro! Ho le consegne. E poi ricordati che l’acqua è fonte di vita.
Già fonte di vita! Dopo anni ancora non si rassegnava al fatto che il papà, per tutta l’estate, lavorasse a bordo della sua Ape per consegnare a tutti i chioschi e stabilimenti della riviera cittadina l’acqua minerale. Oltretutto la mamma faceva terrorismo psicologico dicendo che se il papà non avesse lavorato così tanto non avrebbe potuto comprargli i regali per Natale.
Una volta Vittorio provò ad accompagnare il papà a fare il giro delle consegne, per vedere di persona ciò che lo separava dalla sua compagnia e dalle corse nel boschetto. L’afa opprimente dell’Ape azzurra, la pelle bollente ed appiccicosa del suo sedile, però, gli fecero quasi invidiare i gavettoni gelati dei suoi aguzzini coetanei.
Riposta la cornice sopra il televisore si diresse verso la porta. Prese da sopra il mobile dell’ingresso le chiavi del camioncino con il portachiavi pubblicitario della sua ditta: “Persichini Acque Minerali”.
Accanto alla porta troneggiava la foto del padre e della madre, sorridenti, sul molo davanti a quella nave mastodontica. La crociera, che il papà si era visto costretto a regalare alla moglie come regalo per le loro nozze d’argento, si rivelò però la gran beffa della famiglia Persichini.
La Moby Prince stava portando il padre di Vittorio a fare il suo ultimo giro.
Vittorio, ogni volta che vedeva quella foto, si chiedeva quali furono i suoi ultimi pensieri; in quei momenti in cui si rese conto razionalmente che non c’era più nulla da fare; quando capì che purtroppo era finita, ma che c’e’ n’era ancora di tempo per morire. Già perché il fuoco, che non gli diede vie di fuga, fu inesorabile ma lento. Avrà dovuto attendere con angoscia la morte, con il cuore che scalpitava dentro il petto mentre il fumo acre lo stordiva, gli invadeva i polmoni, lo soffocava lentamente, fino a farlo accasciare sul pavimento alla disperata ricerca di un filo d’aria pura.
Chi sa, papà, se anche in quel momento avrai pensato che l’acqua e’ fonte di vita?!
Che beffa! Morire in mezzo al mare, sopra una distesa d’acqua, carbonizzato in un rogo; per giunta in un incidente navale dovuto all’accesso di vapor acqueo: la nebbia.
Vittorio prese il pomo della porta per tirarla a sé.
Di colpo si fermò, come quando gli veniva l’illuminazione che si stava dimenticando il portafogli. Con la mano tastò istintivamente la tasca del giubbetto e si ravvisò che invece aveva preso ciò che gli serviva; ciò che in quei giorni, di festa e d’eccessi per tutti, gli dava sollievo.
Infilò la mano in tasca. Per tranquillizzarsi, la tirò fuori per controllarla.
Sì, era tutto apposto.
Come tutti i pomeriggi dell’ultima settimana quella siringa era bella piena d’acido muriatico, pronto ad essere distribuito per ogni cassa d’acqua minerale del suo camioncino.
Conosco Gino da tanto tempo. Troppo forse. Sono passati più di vent’anni da quando ci incontrammo la prima volta, proprio qui al mare. Ora che ci penso, vista la nostra diversità, forse è proprio l’acqua l’unico elemento che sempre ci ha in qualche modo legati.
Io al mare ci sono nato, ricordo i primi tuffi con mio padre, mia madre che mi spiegava l’importanza dell’acqua per tutti gli esseri viventi, i giochi con i miei fratelli. Per me l’acqua ha sempre rappresentato bei ricordi. Per Gino no. Lui ha uno strano rapporto con l’acqua. Ha grande amore, rispetto anche, perché lui riesce a mandare avanti la baracca grazie a lei. La odia anche, tutte le sere e tutte le mattine è costretto a fare i conti col mare, tira le sue bestemmie, prega il suo dio, ma penso che tutto questo rientri nella quotidianità di un pescatore. Un lavoro, una missione quasi, che mi ha sempre affascinato fin da giovanissimo, quando con lo sguardo seguivo le barche e i loro piccoli e traballanti inquilini di una notte, con la sola certezza di dover andare e i molti dubbi da riportare. La vita di Gino non è mai stata facile, i suoi ricordi nascono in una barca e lui sa che probabilmente finiranno con un’altra. Avrebbe forse dovuto avere più coraggio quando ne aveva l’opportunità, ma non è facile a sedici anni abbandonare tuo padre, i tuoi fratelli, le tue sorelle e scoprire molto più tardi che l’hai fatto solo perché eri arrabbiato col tuo dio che aveva avuto la bella trovata di chiamare troppo in fretta tua madre.
Così sono passati gli anni, gentili con me e la mia voglia di vivere, di emergere, di fare parte attiva di questo mondo; sgraziati con lui e la sua amarezza, la sua voglia di spegnersi e di immergersi in abissi sempre più profondi.
Ricordo anni fa, il giorno del suo matrimonio, pensai che quello fosse un giorno speciale, mi dissi che forse quel giorno l’avrei visto sorridere. Forse lo fece. Magari in quel suo sguardo un po’ assente, vicino alla sposa che sembrava capitata lì per caso, un momento di gioia magari è passato. O era soltanto la consapevolezza degli uomini che si impegnano senza amore, solo per un inconscio ed innato desiderio di continuare la specie. Anche in questo caso il destino era stato mio amico. Io la mia compagna l’amavo e per mia fortuna l’amo tuttora, come quel giorno di luglio, quando il mare era già pieno di gente e schiamazzi, incrociai i suoi occhi tra mille e poco dopo ci baciavamo tra gli scogli.
L’altra settimana ho rivisto Gino. Era quasi un anno che non lo vedevo. Sono passato da lontano, di sfuggita, ma ho capito benissimo cosa stava facendo. Seduto su una cesta, puliva la rete, un lavoro di fino, quasi maniacale, ma lui ha sempre detto che quell’intreccio di fili gli ha permesso di campare fino a mò e ha mandato a scuola i figli. I figli. Lui non ne parla volentieri. Lui non parla mai volentieri di niente. Se qualcuno però glielo domanda, bé non l’ammetterà mai, ma è l’unica volta in cui potrei giurare di vederlo sorridere. Non con il viso ovviamente, ma l’anima quella ci giurerei che è felice. Sono sicuro che è per questo che non è voluto andare alla festa dei gemelli quando si sono laureati, forse la felicità è un concetto troppo nuovo per lui e alle novità ci si abitua con calma. Forse negli ultimi anni quel suo viso scuro si è un po’ illuminato, ma quando c’è troppa luce sembra quasi che si volti per farsi ombra da sé. E’ convinto dentro, nel profondo, che se mai dovesse lasciarsi andare all’allegria qualcosa di terribile potrebbe accadergli e allora, quando occorre ritorna ai suoi silenzi e l’ombra delle sue rughe si allunga di nuovo sul suo viso stanco.
Domani per me sarà un gran giorno. Sono malato da tempo e vorrei vederlo per l’ultima volta. Mi sono sempre sentito in debito con lui. Certo nessuno di noi ha deciso che la fortuna dovesse girare dalla mia parte e non dalla sua, ma io ho sempre vissuto tutto questo come una colpa e domani, finalmente, potrò dirgli tutto questo. Forse riuscirò a lavarmi la coscienza, forse lui mi capirà, forse. L’appuntamento è qui da me alle sei, sono sicuro che verrà. Prenderà la sua barca come al solito e si presenterà qui poco prima che cali il sole, butterà la sua rete e per la prima volta in vita mia mi tufferò con gioia tra quelle maglie che sempre ho tentato di fuggire. Aspetterò l’alba e aspetterò che lui mi venga a prendere e mi tiri fuori da questo mare che è stato la mia casa per tutta una vita. Quando potrò finalmente guardarlo dritto negli occhi gli dirò: “ Tu sei un pescatore e anche se non parli so che tu lo sai. Sai che ogni pesce, quando sta per morire, sceglie uno di voi. Sai che l’ultima cosa che voglio vedere è il tuo viso che si allarga felice. Un sorriso. Io ho scelto te”. Non mi deluderà, ne sono certo.
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L'orizzonte ampio si stendeva davanti ai miei occhi, ma la mia attenzione era fissa sulle sparute e pallide bavose che si agitavano nella salmastra pozza incastrata fra gli scogli. Odiavo andare a pescare; non avevo senso dell'equilibrio e avevo paura di inciampare; avevo caldo; odiavo fare il bagno nelle anse riparate dalla corrente, piene di ombre e di pietre verdastre; soprattutto odiavo il chiosco lo "Squalo"; il figlio del gestore, mio coetaneo, era un guizzo bruno in quel panorama bianco spazzato dal sole calabro. Non portava ciabatte e si tuffava senza paura dallo scoglio più alto; per questo trovava ridicola la giovane turista con il cappellino col fiocco.
Il mare lo amavo; la pelle scura e odorosa di sale, gli occhi che spiccavano come lampi sul viso abbronzato, i capelli schiariti dal sole.
Le vacanze a Diamante duravano tre mesi; non c'era libertà per me e le mie sorelle, ogni azione della giornata era scandita perfettamente dagli orari imposti dagli zii; eppure, forse per eccesso di mancanza, non ci sentivamo -allora- costrette in ritmi non nostri. La sera si usciva tutti insieme dopo la cena e la doccia, vestite con garbo, pronte per l'unica attività concessa: la passeggiata sul
lungomare, attività evidentemente meglio compresa dai grandi; per me e le mie sorelle era un'inutile perdita di tempo, salvo si rendesse possibile l'acquisto di un gelato o di una bibita fresca.occasione assai rara.
Era una specie di rito obbligatorio, questo della pesca. Secondo i miei zii l'aria "di scoglio" era più pura dell'aria "di spiaggia" e dunque più salutare; per me era solo molto più calda e puzzolente. Unico sollievo, il vento che si alzava nel primo pomeriggio dal mare; allora con fare maldestro mi arrampicavo sullo scoglio più alto, "il Bastimento", che aveva la forma di una prua di nave, e mi sedevo con le gambe penzoloni e gli occhi chiusi a prendere in faccia gli spruzzi delle onde. Ero sola lassù e potevo essere ogni cosa: gabbiano, spuma di mare, diva del cinema, principessa che aspetta il principe marinaio, capitano di ventura.
Quel pomeriggio c'era a disturbarmi il rumore del fabbro che montava il palco per la festa del quindici agosto; stavo per alzarmi ed andar via, quando vidi che sull'unico percorso per arrivare in cima si stava arrampicando il ragazzo del chiosco. Non potendo scendere, decisi di sedermi con fare distratto.
Pronta a sostenere con caparbietà il suo sguardo, mi tolsi il cappello; lui non si tuffò. Si sedette accanto a me, mostrandomi quel che aveva in mano: un granchio. Mi guardò, poi sbatté con violenza l'animale sulla pietra. Armeggiò qualche minuto, poi disse solo:
"Assaggia" e nel dirlo m'infilò in bocca la polpa del granchio. Rimasi immobile, imbarazzata e spaventata per la vicinanza con quel ragazzo selvatico.
Inghiottii il boccone senza masticare, poi corsi via.
Il cuore mi batteva, volevo sputare quel gusto aspro di mare crudo e quel gesto così intimo di un ragazzo, primo della vita.
Fu l'ultima volta che salii sul "Bastimento"quell'estate. Le vacanze finirono in fretta e non parlai più con il ragazzo del chiosco.
Tornai in città, e il sapore forte del suo gesto divenne presto un ricordo qualsiasi.
Per diverse estati non tornammo in vacanza a Diamante.
Si agitava dentro di me, in quegli anni di crescita turbolenta, il desiderio di ribellione e la voglia di sbattere contro la vita; cambiavo l'aspetto, l'abito, la faccia, che si faceva imbronciata e vigile; cambiava il corpo, che assumeva fattezze di donna; cambiava il mio modo di pensare e di sentire, si faceva battagliero contro tutto e tutti, troppo sensibile alle ingiustizie del mondo e troppo duro verso la mia famiglia.
Quando tornai a Diamante, quattro anni dopo, fumavo sigarette, avevo un tatuaggio, vestivo abiti
stracciati e ero arrabbiata. Avevo ancora un cappello, ma non aveva fiocchi.
Forse fu per il cappello, che venne da me.
Il ragazzo del chiosco era cresciuto anche lui, e la sua silenziosa ribellione contro il mondo era forse più violenta della mia, costretta nel ristretto mondo del paesetto di mare.
In quella settimana che mancava alla fine delle vacanze racchiudemmo la storia d'amore di una vita, perché sapevamo entrambi che la fine della villeggiatura sarebbe stata insieme la fine delle nostre possibilità, e così è stato.
Non mi pento di averci condiviso l'amore, nonostante sapessi che non sarebbe stato per sempre. Non mi pento di non avergli detto che ero la bambina col fiocco, perché allora era sparita, nascosta dalla scorza dell'adolescente.
Adesso, che vorrei essere una donna col fiocco, non mi dispiace neanche che il ragazzo che è passato con me nel mondo degli adulti sia un riflesso lontano e nulla più; di lui, e delle mie estati a Diamante, mi è restato l'odore aspro e pungente di mare, di scogli, di granchio; lo conservo segreto nel naso, lo cerco in ogni uomo, lo trovo in chi amo.
Ultima modifica di liberliber il ven mar 12, 2004 12:57 pm, modificato 1 volta in totale.
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Il sole picchiava sulle loro teste come un maglio in una fucina batte su di un’incudine. Tom sapeva che da quella situazione non vi era scampo, non vi era una via di fuga; eppure non poteva finire così. Che lui e Tracy non andassero d’accordo lo sapeva tutta la città, ma addirittura intestardirsi per quella dannata bottiglia, per volerla a tutti i costi fino a giungere a questo punto, ad un vero duello, gli sembrava talmente irreale da cercare ancora di capire come fossero arrivati a tanto. Erano passati solo pochi giorni da quando, demolendo l’ennesimo edificio abbandonato, trovarono alcune casse contenenti delle bottiglie vuote, risalenti al tempo in cui in quell’arida piana pietrosa scorreva, limpida, l’acqua di alcune fonti nelle vicine colline. Un panorama ben diverso da adesso, verdi pascoli e campi coltivati si perdevano a vista d’occhio lungo tutto il corso del fiume; poi le fonti da un giorno con l’altro si seccarono e non vi fu più acqua.
Raccolti bruciati dalla siccità, manzi e pecore che per fame o per sete morivano in massa, intere famiglie rovinate, molti emigrarono cercando fortuna oltre le montagne. Le montagne: un confine tra la vita e la morte, dopo di quelle vi era prosperità e benessere, città enormi illuminate grazie alla potenza dell’energia elettrica ricavata dalle grandi centrali che sfrutavano la forza dell’acqua; sicuramente un posto migliore dove vivere, ma per arrivarci ci voleva molto denaro.
Erano tutte vuote, quelle bottiglie, reminiscenze di un tempo ormai lontano, seppure fossero passati soltano una ventina d’anni, e spostandole loro due ne notarono una diversa, pesante, chiusa....
piena: acqua delle fonti, vi erano dei collezionisti, vecchi papaveri arricchitisi col disastro, che avrebbero pagato il loro peso in oro per potersi fregiare di quel trofeo. Tom fu più veloce, prese la bottiglia e corse via, dando uno spintone a Tracy e mandandola a sbattere contro una delle travi portanti dell’edificio. La furia della ragazza non tardò a farsi sentire; d’altra parte l’oro avrebbe permesso la fuga da quell’inferno fatto di polvere e vento, con l’acqua clorata importata da oltre le montagne per sopravvivere. Lo cercò per tutta la città, urlando il suo nome, intimandogli di restituire ciò che gli aveva rubato; passarono solo poche ore, e Tom si trovò di nuovo di fronte quegli occhi azzurri come il ghiaccio, nelle vicinanze di uno dei pochi negozi ancora aperti:
“Dove pensavi di scappare?” La rabbia le usciva insieme alle parole, ringhiate tra i denti.
“Perché, tu non l’avresti fatto?”
“Dammi la bottiglia.”
“Scordatelo, è il mio passaporto verso una nuova vita, lontano da questo deserto.”
“NO! È MIA! IO DEVO ANDARMENE! IO NON POSSO PIÙ RIMANERE A MARCIRE TRA QUESTE STRADE!” Le sue urla si diffusero per tutta la strada.
“NEMMENO IO, BELLA!”
Tracy lo colpì con violenza, una due tre tante volte, prima che lo sceriffo la bloccasse.
Non era la prima volta che si azzuffavano per qualcosa, ne che finivano a passare la notte in una cella; cresciuti in un ambiente arido di soddisfazioni, non erano mai riusciti a trovare un modo per andare d’accordo: erano più le circostanze che il loro volere a metterli fianco a fianco, spesso all’interno delle pareti di quella fredda cella, divisi soltanto da alcune sbarre; notti passate a lanciarsi insulti e sputi, dato che venire alle mani era impossibile. Passarono molto del tempo in silenzio, lanciandosi occhiate piene di furore: allo sceriffo della bottiglia non dissero nulla, e lo sceriffo stesso non stette a perdere molto tempo con loro. A Tom non andava questa situazione di stallo: entrambi erano stanchi di quella vita senza prospettive, entrambi ne volevano una nuova, lontano, oltre le montagne, entrambi volevano potersi fare il bagno in acqua profumata e non in quel miscuglio canforato che arrivava ogni settimana da chi ancora l’acqua la possedeva, e la faceva pagare a caro prezzo:
“Cosa faresti una volta fuori da queste terre?” chiese Tom, nel cuore della notte: sapeva che lei non stava dormendo.
“Una casa, un lavoro decente, non quello schifo che facciamo qui, studiare... cambierei tutto, radicalmente” rispose, la voce quasi un sussuro. “E tu?”
“Più o meno le stesse cose”. C’era tristezza nella sua voce. “E se partissimo insieme? Vendiamo la bottiglia e con quello che ne ricaviamo, via, oltre le montagne... di oro c’è ne abbastanza per entrambi”
“Per arrivare là, e poi? Hai idea di quanto costi il viaggio? Non ho voglia di partire da qui sapendo di dover fare la fame una volta giunti alla nostra meta!”
“Ma io e te, assieme, potrem...”
“Io e te? Nemmeno morta, Tom!”
“Bella gratitudine! Ti sto offrendo una possibilità per fuggire da qui!”
“In cambio di cosa? Di me? Pensi di comprarmi così?”
“Fottiti!” disse Tom, con un sospiro.
Il vento mosse la sabbia rossastra della strada, lei ancora una volta di fronte ai suoi occhi, e questa volta sarebbe stata l’ultima. Dopo aver passato due giorni nelle accoglienti stanze dello sceriffo, Tom cercò di vendere la bottiglia, ma ogni volta che trovava un acquirente Tracy finiva per ostacolargli la transazione; andò avanti una settimana, contrattando a mai concludendo, con la ragazza sempre tra i piedi; non poteva andare avanti così, doveva affrontarla una volta per tutte: fu lei a sfidarlo a duello.
Gli portò proiettili e pistola, e gli diede solo ventiquattr’ore per farsi trovare di fronte al vecchio bar con il prezioso oggetto: lo sceriffo era in viaggio per la piana.
La bottiglia era lì, nel mezzo quasi a tracciare un confine invisibile tra i due contendenti; l’aria era tesa, l’atmosfera di attesa quasi irreale, per la strada unici spettatori i gatti: la campana della chiesa in fondo allo stradone cominciò a battere dodici rintocchi: un solo movimento, fluido, il braccio che rapidamente estrae la pistola, arma il cane, un doloroso e violento impatto sulla fronte e il suo cappello che vola, alto, il grilletto che viene azionato...
Il suono di vetri infranti e l’urlo carico di rabbia di lei furono gli ultimi rumori che Tom udì.
Ho potuto così incontrare persone e diventarne amico e questo è molto della mia fortuna (deLuca)
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Qui nasce tutto.
Acqua.
Si naviga, si nuota, cullati dal calore, è sicuro, sì, è sicuro.
E’ nero, ma tranquillo. Sto bene, non so perchè, non so come, non so quando. Non so, ma sono qui e sto bene.
Che è questo limbo, dove tutto giace di passaggio? Limbo di pace.
Non vivo, non morto. Di passaggio...Oh, sì pellegrino...
Che amore, che amore, mi ispira questo luogo.
Onde, onde, onde dolci.
Perfetto e discontinuo il moto.
Acqua.
Madre.
Mi muto, mi trasformo.
Metamorfosi.
Cresco?...
(Ricordo di vite passate)
Basta, ora. Troppo stretto.
Non più qui. Nell’Acqua.
Oltre.
Qualcosa ci sarà.
Con l’unica forza, la sento sempre più in me
......avanti
avanti
avanti (ora ho paura)
avanti
avanti
avanti (non più Acqua)
avanti
avanti
avanti
Al varco.
Eccoci di nuovo qui, a mezz’aria, senza sapere anche stavolta come andrà a finire.
Non so quante volte ho fatto “il giro”, non so quante volte ho pensato di non farcela, io sono una di quelle navigate qui in mezzo, anche se siamo trascinate da un vento fresco e ci conosciamo in molte, ma sempre poche se paragonate alla massa complessiva.
Al momento il mio stato è di goccia di nuvola, aspetto di unirmi a qualche altra compagna di viaggio per dare vita ad una goccia di pioggia e per poi fare il grande tuffo giù fino alla grande vasca che c’è laggiù, migliaia di metri di sotto di noi.
La corrente ci sta raccogliendo in una di quelle montagne enormi che arrivano anche a diecimila metri di altezza, bianche che abbagliano e che fanno restare col naso all’insù.
Nei miei tanti viaggi ho visto tanto, sono piovuta su una montagna e lì dopo aver battuto sul terreno mi sono intrufolata, raccogliendo calcare; sono di nuovo precipitata nel vuoto buio di una grotta facendo “plok” su una torre che ferma da millenni aspetta di crescere goccia a goccia; scorrendo poi giù per un torrente al buio; facendo la danza nei vortici sballottolata su e giù; poi un salto e whamm: l’aria fresca, la luce del sole e quell’istante eterno del volo prima di cadere in una piscina naturale così celeste da fondersi con il colore del mio cielo.
Un’altra volta sono piovuta dritta dritta in una città e lì ho imparato l’attesa, quel tempo infinito dello stare lì sotto al sole aspettando che il calore mi rendesse così leggera da poter vapore per tornare a volare invisibile, ma palpabile nelle giornate d’estate; intanto ero specchio della realtà che mi circondava dell’immagine ferma di quella cosa bianca enorme tutta archi che torreggiava sopra di noi, dicono che l’abbiano fatta circa 2000 anni fa e per vederla meglio ho cominciato a muovermi mossa dalle onde sottili del movimento dei passanti.
Mi sono rotolata con tante altre gocce nel mare aperto lì dove sembra tutto uguale e solo la carezza del vento ci spinge in su e in giù, le più timorose se ne stanno giù in basso in modo che il sole non le scaldi mai più di tanto, e ce ne sono molte che non hanno mai più fatto il grande tuffo!
Loro se ne stanno là sotto e raccontano storie di pesci colorati, di calde correnti e di enormi animali, altre ancora di acque così nere che non si capisce assolutamente dove si sia e dove il freddo è così intenso da sembrare di essere in alta quota.
Altre volte ho visto il mondo scorrermi così rapidamente sotto gli occhi da avere veramente paura soprattutto perché nell’aria c’erano tutti quegli alberi che frullavano come fogli di carta…
E ancora, cadere sofficemente, galleggiando nell’aria per tanto tanto tempo, guardando incantata le bellezze della natura scorrermi intorno lentamente in un tramonto dorato incoronato da montagne rosse con le loro creste ricoperte di neve e ghiaccio. Addormentarmi lì, aspettando la calda carezza dei primi raggi di sole che riportandoci alla vita ci da modo di correre e fonderci in mille giochi spettacolari.
Avere l’occasione di fotografare l’attimo in cui il sole sbucando da una nuvola ci investe con i suoi raggi radenti trasformando il nostro volo in un tripudio di colori e dove la magia conosce mille storie e mille storie vengono inventate dal cuore dei bambini.
Sono quasi pronta per il prossimo viaggio tra poco il mio peso sarà tale da farmi precipitare ad una velocità vertiginosa e questa volta sarà lunga lo vedo… ho voglia di fare qualcosa di speciale, laggiù vedo un bimbo con il suo papà, sono vicino ad uno specchio d’acqua, voglio fare un tuffo perfetto finire lì accanto a lui e fare la corona e poi tutti gli anelli in acqua, no questo non l’ho mai fatto e dicono che sia una delle cose più belle, voglio proprio stupire quel bimbo…
e non dite che le gocce d’acqua sono tutte uguali.
Me lo diceva sempre mia madre: “Figliolo, ti metterai nei guai con questa tua voglia di interazione!” mentre io la rassicuravo nel modo poco convinto che solo i figli sanno adottare quando si confrontano con i loro genitori. “In fondo”, pensavo, “cosa ti vuoi aspettare da una che oltre a mio padre non si è legata ad altro? Io non sarò come lei, voglio muovermi, girare il mondo unirmi e separarmi dieci, cento, mille volte perché quando la Vita sarà finita non mi resti alcun rimpianto!. Con questo spin che ho a disposizione me ne andrò lontano, a conoscere il mondo e non farò la fine di Argo e Xeno inerti nella loro algida nobiltà!”. E così sono partito, con tutta l’energia che avevo a disposizione e la voglia matta di raggiungere il mio scopo. All’inizio erravo solitario, un po’ inebriato dal nuovo ed inatteso universo che man mano scoprivo e un po’ timoroso sul futuro. Mai avrei creduto che in breve tempo tutto sarebbe cambiato.
O. è arrivata nella mia vita con la forza di quel battito d’ali che scatena gli uragani; bella nelle sue forme perfette, circondata da una nube elettronica che produceva scintille ad ogni istante. Mi ha guardato, alzando appena un po’ il suo folto sopracciglio, e mi ha sorriso…..una forza inaudita mi ha attratto a lei e mi sono ritrovato avvinghiato a quel corpo in maniera totale.
Ma O. non è come le donne della mia specie, io da solo non le bastavo e ben presto si è messa alla ricerca di un elemento nuovo che potesse soddisfarla.
Dal canto mio l’idea di un triangolo non mi allettava affatto! Sono un tipo geloso e sebbene volessi aprirmi a nuove esperienze questo mi sembrava onestamente troppo! Ma nella coppia era lei l’elemento di forza e così ho dovuto accettare la situazione.
Dopo poco che eravamo alla ricerca di un compagno idoneo O. ha conosciuto un tipo della mia stessa specie, stessi sogni, uguali ambizioni ed è stato facile per lei irretirlo e coinvolgerlo in questa avventura.
Abbiamo creato un triangolo perfetto, lei si distribuiva equamente tra noi due che al contempo eravamo abbastanza distanti per non creare scontri e repulsioni.
A poco a poco mi sono abituato a questo stato e non mi sembrava più neanche tanto male; certo, a volte ripensavo alla mia vita raminga e ai miei progetti di indipendenza e un po’ mi saliva su un dolore, che i saggi chiamano nostalgia, ma poi guardavo O. e mi convincevo che questo era il meglio che potessi desiderare e me ne stavo mollemente sospeso a vagolare nel vuoto pago del mio stato.
Ma nulla resta immutato per sempre! Ben presto il clima è cambiato, ed il freddo si è instaurato tra di noi. O. sentiva la necessità di cambiare ancora, era annoiata di questo rapporto a tre; ha incominciato a frequentare altre che come lei vivevano un legame insoddisfacente e ci trascinava in interminabili discussioni sulla necessità di cambiare il proprio stato di aggregazione. Non saprei più dire neanche quando nel gruppo si è presentato O 2. Come un grande santone ha incominciato a parlare del futuro, del regno della luce e dell’energia, della possibilità di creare una comune e della necessità di un sacrifico collettivo che avrebbe consentito la rinascita e la felicità. Noi, poveri e inermi, abbiamo cercato di far valere le nostre ragioni ma a nulla sono valse le parole, le urla ed i pianti: il grande progetto era iniziato.
E così oggi mi ritrovo in questo freddo mattino ad attendere una fine che non comprendo… siamo tutti assiepati qui in attesa degli ordini, il gelo che ci attanaglia, mi fa perdere le energie. Sono stanco e ho paura
ecco una forza tremenda mi attira
il vuoto intorno a me non mi trattiene più
inizio a precipitare,
Ore 6:00 del mattino
Sta spuntando l’alba. Vedo la luce apparire lentamente sul mare e inizio a riconoscere il panorama. Stamattina è particolarmente bello. E poi questo silenzio incredibile, che sembra trasferire tutto in una eternità di pace, ripulita di tutta l’angoscia e la disperazione che ci portiamo dentro in questi giorni e che sembra debba prendere il sopravvento appena incominceranno i rumori.
So che tu la puoi vedere. Sei steso, volgi le spalle alla finestra eppure so che se la guardo io la vedi anche tu.
Di sicuro ne percepisci la sensazione di eterno perché te la trasmetto io, stringendoti la mano ed è giusto così.
È giusto spostare il “qui ed ora” che ci annichilirebbe in un tempo infinito, senza dopo, senza inizio dove restiamo tu ed io, con la mano nella mano, nella luce che è puro oro e che, senza confini, scivola sul mare e si allarga allo spazio.
La nottata è stata tranquilla e ci ha dato modo di pensare e dirci, senza suoni, tante delle cose che rancori, incomprensioni, fragilità hanno trattenuto per tutti gli anni in cui abbiamo anteposto facciate altrui al dialogo. Sto diventando fatalista, ma se le cose sono andate così è perché così dovevano andare. Non so che senso abbia tutto questo, qualora lo abbia un senso. Ma mi sembra che Il Tempo, stamattina, abbia trovato il suo compimento, che fino ad ora sia trascorso solo per arrivare qui.
E credo anche che questo stato di grazia sia un regalo che abbiamo ricevuto e che stiamo facendo nostro proprio in ragione di tutti gli scontri e le lontananze che hanno caratterizzato il tuo rapporto con il mondo circostante.
Mi hai amato? ci hai amato? potrei rispondermi, ma solo accettando che l’amore è un sentimento per ogni singolo che lo vive, che non ha Una natura, ma assume i contorni ed i significati della singola persona che lo sperimenta. Allora la risposta è si; più che mai a modo tuo ma ci hai amato ed ora accetto anche che la caratteristica pregnante sia stata la stima, l’ammirazione.
Questo non significa che mi vada bene così- In quanto donna, non accetto un condizionamento nel dare amore e la stima è qualcosa che è stato necessario guadagnarsi e rinnovare spesso.
Ma adesso vedo tutte le tue fragilità, le insicurezze e le paure immobilizzanti che hai portato dentro da quando eri bambino, da quando hai dovuto mitigare la tua richiesta sconfinata di amore perché improvvisamente e inaspettatamente veniva suddivisa con altri, con altre.
E non l’hai più ritrovata quella fonte inestinguibile di benessere, di completezza. Ti sei sentito uno, non due in uno ed hai iniziato a chiedere di più a te stesso, perché la paura si riduceva solo raggiunta la méta. Ma poi ricomincia poco dopo a sussurrare a bisbigliare a parlare a gridare ad assordarti.
E la perfezione che esigevi da te poi non riuscivi a non esigerla da chi ti stava attorno, sia che lavorasse con te sia che fosse stato generato da te.
Coinvolti da questa intransigenza non si riusciva a vederne il motore primo, a spostare la tendina – peraltro sottile e quasi trasparente, ma oscurante per chi l’aveva attaccata al naso – e spalancare la scena al Bisogno d’amore che la attivava.
Bisogno! è questa la parola che ci è sempre sfuggita, che si celava dietro la maschera della durezza, o anche della violenza. Non è banale psicologia da portierato. È un vuoto che ti si amplia dentro, è l’uomo nero che appare ogni volta che si spengono i riflettori e che non si vuole costringere nella cantina delle rimozioni. E noi, tutti noi, dovevamo spingerlo con te oltre la porta. Ma non lo sapevamo.
Se solo l’avessimo saputo! Avremmo spinto tutti insieme, avremmo moltiplicato le forze, le avremmo centuplicate, invece di frantumarle e sminuzzarle nell’opporci.
Ma tant’è, doveva andare così e così è andata.
Tutto questo è solo un trambusto interno che mi serve per capire, per collocarmi io rispetto a te, perché adesso sulla corrente elettrica dei miei ragionamenti prevale la calma e l’infinità di quest’alba silenziosa.
Davvero, adesso posso amarti perché tutto è passato, è andato oltre e noi siamo sopravvissuti alla brutalità della voragine che avrebbe voluto scaraventarci da ogni parte, isolandoci. Come eroi sul campo della battaglia rimaniamo feriti ed in piedi e possiamo guardarci soddisfati negli occhi. Possiamo tenerci per mano.
Perché non ci hai mai permesso di farlo prima? perché abbiamo rispettato la tua volontà e non l’abbiamo mai fatto prima?
Non importa. L’importante è farlo adesso, ora che la tempesta si è trasformata in fiume e, accarezzati dall’acqua, fluiamo come è naturale e giusto che sia.
Riposati, devi essere stanchissimo, ora non dobbiamo più tenere la guardia alta: c’è il fiume che si occupa di noi.
«Dove vai?» chiese Marina, vedendo Igor uscire dalla camera col cuscino sottobraccio.
«In soggiorno. Chi soffre di insonnia, è meglio che dorma da solo.»
Marina non gli lasciò il tempo di spiegare che era stato lo psicologo a pronunciare quella frase, nel pomeriggio, chiudendo l’incontro settimanale del gruppo terapeutico. Si alzò come una furia, tutta nuda com’era (naturale, visto che avevano appena fatto l’amore), e prima di chiudersi dentro a chiave urlò: «E non ti provare a entrare prima di domani a mezzogiorno.»
Igor si abbandonò sul divano, la testa sprofondata nel guanciale. Era teso: pensava che da un momento all’altro avrebbe sentito qualche rumore... niente. Silenzio, finalmente.
Gli parve un miracolo, quel sabato, svegliarsi giusto a mezzogiorno. Si sentiva così rilassato e felice che avvertì il bisogno di dirlo subito a Marina.
La porta della camera era aperta. Di Marina, solo un biglietto: “Sogni d’oro”. Provò a telefonarle, ma una voce anonima comunicò che il numero era stato disattivato.
Il pomeriggio se n’era andato inutilmente a cercare di rintracciarla: da sua madre, dalle amiche. Dagli ex-, perfino. Alla sera Igor si mise a letto rassegnato, ma anche speranzoso. Marina, quando dormiva, era fonte diretta o indiretta di una quantità di rumori fastidiosi: il sibilo del suo russare leggero, parole incomprensibili che sfuggivano ai sogni, i borborigmi discreti dello stomaco; e poi il ronzìo del condizionatore d’estate e dell’umidificatore d’inverno, la vibrazione, impercettibile ai più, della sveglia elettronica, il bzzz bzzz degli insetti che roteavano intorno alla lampada che lei si ostinava a tenere accesa, come i bambini. Tutto contribuiva a esacerbare l’insonnia di Igor, al punto che talvolta dubitava che la mezz’ora di veglia appassionata che lui e Marina spendevano a letto con reciproca soddisfazione valesse le ore di tormento che seguivano.
Era sul punto di addormentarsi quando sentì la goccia. Uno stillicidio sporadico, poi accelerato, infine regolare: circa una ogni due secondi. Igor teneva l’orecchio teso, quasi aspettasse con impazienza ogni nuovo rimbalzo della maledetta goccia. Sapeva che ormai, se anche se si fosse interrotta, la sola possibilità che riprendesse gli avrebbe impedito di prender sonno, finchè non ne avesse scoperto ed eliminato la causa.
Igor andò in bagno: il rubinetto della vasca perdeva. Ricordò che Marina aveva proposto per mesi di eliminare quella vecchia vasca dallo smalto ormai corroso, per sostituirla con una nuova. Magari con l’idromassaggio.
Strinse le manopole: niente. Buttò una salvietta di spugna nella vasca, e il plic diventò un ploc. Non era un grande miglioramento. Igor si diresse al ripostiglio, frugò nella cassetta degli attrezzi, tornò in bagno, e lavorò di chiave inglese finchè la goccia cessò. Per sicurezza tenne l’attrezzo sul comodino, e a tutte le ore si alzava per dare un’altra stretta.
La domenica Igor andò a letto un po’ sporco: aveva evitato di fare il bagno nel timore che il rubinetto ricominciasse a perdere. Però era tranquillo.
Poi sentì lo sciacquone del vicino. Non l’aveva mai notato prima, ma non c’era più la barriera insonorizzante dei libri di Marina che, fino da quando non se n’era andata, avevano coperto l’intera parete di confine.
L’uomo era anziano. Igor pensò che doveva avere dei problemi: in un’ora contò tre scrosci, poi restò sveglio a cronometrare gli intervalli tra i successivi. Da mezzanotte alle sette ne contò dodici, per una media di uno ogni trentacinque minuti.
Al mattino telefonò al figlio del vecchio: «Forse è il caso che lo veda un dottore», disse.
«Grazie, è una fortuna avere un vicino come lei.»
Al pomeriggio l’avevano ricoverato.
Lunedì sera Igor sbadigliò, e si allargò soddisfatto nello spazio lasciato libero da Marina. Poco dopo partì una lavatrice: i vicini del piano di sopra erano tornati dalle vacanze la sera prima, e parevano decisi a smaltire subito tutto il bucato. Igor si trovò a passare la notte a pensare: “Adesso comincia il risciacquo, ora scarica, questa è la centrifuga...” Gli sembrava che i panni roteassero nel cestello davanti ai suoi occhi spalancati nel buio, con un effetto di ipnosi rovesciata.
Martedì notte impazzì l’impianto di irrigazione del giardino condominiale. Gli erogatori girevoli, i gocciolatori, le fontanelle, i getti a spruzzo: nessuno voleva saperne di seguire l’usuale programmazione, e si attivavano uno dopo l’altro, o a gruppi, quasi facessero una gara della quale Igor si sentiva l’arbitro involontario.
Mercoledì cominciò a piovere. Era una pioggia insistente e nello stesso tempo indecisa, che non sapeva che ritmo prendere. Igor ci fece caso soltanto la sera: di giorno, sul lavoro, aveva altro a cui pensare, e in auto, sotto la pioggia, si preoccupava solo della strada e dei tergicristalli. La notte invece, suo malgrado Igor restò sveglio a prevedere se la pioggia sarebbe calata, o forse cresciuta... intanto batteva sulle persiane.
E giovedì il tempo non cambiò.
Venerdì Igor era stanchissimo, ma per nessuna ragione sarebbe mancato al gruppo di terapia dell’insonnia. Arrivò con due occhiaie che quasi raggiungevano la mandibola, e si accasciò su una sedia nelle ultime file proprio mentre lo psicologo cominciava: «La scorsa settimana ho concluso dicendovi che oggi avremmo discusso la teoria di alcuni miei illustri colleghi, secondo la quale chi soffre d’insonnia dorme meglio da solo. Benchè alcune osservazioni sembrino confermare quest’ipotesi, va detto però che numerose e più convincenti considerazioni, sostenute da corposi dati sperimentali, ci portano piuttosto ad affermare il contrario: la presenza di un’altra persona è in realtà vantaggiosa per l’insonne. Non solo perché, ovviamente, la vicinanza di una persona cara non può che migliorarne l’equilibrio psicoaffettivo, ma soprattutto perché qualunque compagno (o compagna) abituale, con la sua sola presenza fisica e anche, paradossalmente, attraverso gli eventuali piccoli disturbi che questa stessa presenza può produrre (e che all’insonne forse paiono aggravare il problema), esercita più o meno direttamente un ruolo protettivo, rappresenta una sorta di guscio che tende a isolare l’insonne da quello che lo tormenta, ovvero costituisce un fattore diversivo che lo distrae da quanto di più estraneo e minaccioso gli sembra stia per aggredirlo. E ciò è ben dimostrato...»
Ma Igor non poteva sentirlo. Si era addormentato.
Ci siamo tuffati dagli scogli, ricordi?
Mi avevi scattato una foto seduta lassù in cima, con io che cercavo di prendere un’aria da vamp e invece pensavo a tutti quei sassolini che mi spelavano il sedere.
Il sole si rifletteva sulla pietra calda e nera; sull’acqua, come se mille api dorate si fossero posate sulla superficie, e danzassero al ritmo delle onde.
Nell’aria c’era quel profumo che ho sentito solo lì, in Corsica, di resina e polvere; di estate, quella vera.
Poi giù nell’acqua, la piccola emozione di un salto, ridere a bocca chiusa per non bere.
E ti ho baciato. Eccome se ti ho baciato.
“Nuotiamo fino alla boa?”
“Tu sei pazza!”
Eppure poi ci sei venuto, insieme a me, dicendomi di andare adagio, che se mi veniva un crampo mica c’era baywatch a salvarci.
Però quando ci siamo arrivati davvero eri anche più contento di me: abbiamo gridato euforici mentre giravamo intorno al galleggiante, come se avessimo compiuto un’impresa.
Tornati in spiaggia, ancora col fiatone, ti ho dovuto dare ragione: da riva sembrava decisamente più vicina.
Ho scaldato le mani al sole, che ormai scendeva sul golfo, e all’improvviso mi sono sentita un po’ triste, perché un altro giorno di quella vacanza perfetta stava per finire.
Poi mi sono anche arrabbiata con me stessa: cretina, pensi di essere la prima che si sente giù di fronte al un tramonto? Eppure “Il Piccolo Principe” l’ hai fatto a pezzi a furia di rileggerlo!
Tu devi esserti accorto di come mi sentivo, perché la sera, dopo cena, mi hai portato a ballare, anche se fino a quel momento avevi detto di non avere nessuna intenzione di stare lì a esibirti tra signore grasse con abiti fantasia e vecchietti con la pelata bruciata dal sole.
Vicino alla pista uno di quei signori con la camicia hawaiana suonava vecchie canzoni francesi, accompagnato solo dalla chitarra.
Mi hai fatto girare e poi mi hai stretta, e io mi sono sentita speciale, insieme a te.
Ho ricordato tutto questo, sul traghetto che mi ha riportato qui.
Dentro c’erano bambini che non smettevano un attimo di correre, e un odore di disinfettante che si attacca alla gola. Fuori era tutto grigio: il mare, il cielo.
Sono passati alcuni mesi, e noi due abbiamo preso direzioni diverse.
Non poteva che essere così: tutta quella perfezione, piano piano, si è logorata, e noi due non abbiamo saputo adattarci a questo cambiamento.
Però io sono dovuta tornare, perché i ricordi mi impedivano di andare avanti.
Assumevano contorni tremolanti, di sogno, come sfumati da un velo d’acqua frapposto fra noi, fra il passato e il presente, e io non riuscivo a capire che fare di me, di quella memoria bella e dolorosa.
Ho attraversato la Corsica in pullman, ad ogni curva mi chiedevo se la mia era la soluzione giusta, confusa e risoluta allo stesso tempo.
E adesso sono di nuovo qui, sullo stesso scoglio: mi sono arrampicata con le scarpe che scivolavano sulla superficie umida della roccia, e poi mi sono alzata in piedi a guardare lontano.
Adesso mi tufferò, arriverò fino alla boa e poi nuoterò di nuovo fino a riva.
Viaggio. La macchina vibra e c'è silenzio, capannoni e campagna mi corrono incontro e scappano veloci, ci lasciamo le nuvole alle spalle, sento un tuono e penso: "a Perugia piove".
Davanti il cielo è libero.
Mamma ha detto :"Andiamo ad Assisi".
E' domenica e viaggio in macchina verso Assisi.
Domani Federico parte. Va al mare da suo zio per due settimane, me l'ha detto ieri e per la prima volta mi ha preso le mani. Lo conosco da un mese, da quando ho cambiato casa, e quando arriva cerco di sedergli vicino. E dico stupidaggini per farlo ridere. Poi ieri ha detto: "Domani vado al mare da mio zio per due settimane" e mi ha preso le mani e io avevo voglia di piangere.
La macchina corre verso il cielo azzurro, io lo guardo e penso: "Dio, fai che lui resti. Una cosa che lo faccia restare. Dio fai che domani ci possiamo sedere vicini. Non so che posso darti in cambio, però ti prego, ti prego non lasciarlo partire" e di nuovo ho voglia di piangere. Alle spalle un altro tuono, le nuvole sembrano raggiungerci, non ho più cielo da pregare, penso alle sue mani che racchiudono le mie e a quando mi affaccio alla finestra per sapere se arriva e per prima cosa riconosco i suoi passi, il modo di camminare e poi i capelli chiari e poi è lui, sono sicura(ma lo sapevo già) e corro a chiamare l'ascensore.
Due settimane al mare, poi solo altre due prima di tornare a scuola.
Ripeto: Ti prego, non farlo partire" e la macchina si ferma.
Lunedì. sono seduta sulla panchina. Penso: "Due settimane. Tornerà di sabato o di domenica?"
Alzo la testa e vedo Federico.
"E tu che ci fai qui?" Non ci credo!
"Pensavo che eri contenta. Ieri ha piovuto tanto che non siamo più partiti, andiamo via sabato prossimo. Pensavo che eri contenta e mi dici che ci faccio qui!"
Non so cosa dire. Si siede sulla panchina e restiamo in silenzio.
Era anche un po' pericoloso uscire al largo da sola, ma era quello il momento, preciso, esatto in cui l'acqua , il cielo, il fondo del mare e il sole s'incontravano per salutarsi.
Era quello il preciso momento in cui io volevo assistere ai contrasti di luce e ombra dei loro saluti.
Sotto di me un blu verde scuro inquietante sul fondo, un po' nebbioso tra i grossi scogli sottomarini neri. Poi la sfumatura schiariva salendo.
Nel ritmo del nuoto i miei occhi guardavano giù nel buio, poi il viso girandosi prendeva aria e gli occhi guardavano fuori la verde riva scoscesa sugli scogli.
Davanti, la linea tra l'acqua e il cielo divideva il sotto, già notturno, dal sopra coi colori accesi dal sole sceso dietro il promontorio
Nuotavo. Il ritmo del corpo mi cullava, mi cullava l'acqua rotta dalle bollicine che le mani creavano buttando l'aria sotto. Uno sguardo sotto di timore, uno sguardo sopra di amore.
tu eri là sulla riva, confuso tra gli altri e io ti vedevo bene.
Ma ora non l'avresti piu' fatto di tuffarti e raggiungermi e nuotare con me.
Il mare dolcissimo cullava la mia delusione, la scioglieva nell'acqua e lentamente la portava via da me.
Ritornavo sempre piu' nuova dalle lunghe nuotate, e incontrandoti sulla riva, sapevo anche sorriderti.