Ferilli e le altre, testimonial del sì sparite Dopo appelli, dibattiti, copertine, talk show e interviste, non hanno partecipato ai giorni cruciali delle urne
Forse se lo sentivano, forse erano depresse ancor prima di sapere i risultati, forse speravano che le donne, tutte le altre donne avrebbero comunque votato. Invece no. Le famose testimonial, attrici e conduttrici di successo, che hanno prestato il loro volto per la campagna per il sì, che si sono battute per i sì al referendum, sono state un po' assenti nei due giorni caldi. Fra loro Sabrina Ferilli, Monica Bellucci, Simona Ventura e Afef. È mancata la loro carica, la loro testimonianza, la loro presenza. È come se dopo settimane e settimane di dibattiti, di fotografie, di copertine, di talk show, di interviste, si siano rinchiuse nelle proprie vite. Come se non volessero guardare in faccia l'infausto risultato.
E forse è stato un po' un peccato non vederle domenica, ognuna al proprio seggio, vederle in giro per le proprie città a dare un segno, vederle in tv a dare coraggio, e poi, ieri, in trepidazione ad attendere quel fatidico arrivo del quorum. Problemi di lavoro, problemi di famiglia. Simona Ventura già da tempo aveva progettato di trascorrere il mese di giugno negli Stati Uniti; Sabrina Ferilli si sta riposando tra qualche giro in barca e la campagna di Fiano Romano; Afef ha trascorso la domenica a Venezia; Monica Bellucci è all'estero.
Qualcuna di loro ha comunque votato, qualcuna no. Certo non sono quei due o tre voti che avrebbero cambiato le cose e va dato comunque loro atto di essersi battute per la causa. Però quest'assenza è stata quasi il segno del risultato. E poi il silenzio di ieri, nessun commento, nessun bilancio.
Erano a Milano, affrante e sconsolate, altre testimonial come Sandra Mondaini, Iva Zanicchi ( che hanno votato domenica) e Lella Costa ( che sulla scheda ieri ha indicato quattro sì). La Costa è proprio inconsolabile, avvilita. E chiama in causa tutte le donne: « Ma dov'erano le donne, dove sono state? Quel 25 per cento che ha votato non erano solo donne. Tutte le altre? » .
Non si dà proprio pace, parla di «una sconfitta amara, umiliante, offensiva ancora una volta per le donne». Si preoccupa per le sue tre figlie ( la più grande, ventunenne, la convinse a partecipare alla raccolta delle firme per i referendum), per il loro futuro. Si chiede: «Che mondo lasceremo a queste ragazze, alle donne di domani? L'ho detto a mio marito: andiamo a vivere in Spagna» . Ha un momento di rabbia: «È una legge crudele, crudelissima, sulla pelle delle donne. Mi viene quasi da dire: che ci passino le vostre figlie attraverso l'impianto di tre embrioni» .
Cerca di ritrovare la calma e la serenità e analizza: «Mi aspettavo una sconfitta, ma non di questa entità. Speravo almeno in un 40 per cento che avrebbe avuto un certo peso. Così invece... Gli appelli all'astensionismo sono stati terrificanti. Questo è un risultato che dimostra la mancanza di rispetto per gli altri, la mancanza di libertà. E la misoginia dilagante» . La sua paura, ora, e non solo la sua, è che verrà toccata la legge sull'aborto «talmente in contraddizione con la legge 40 che non potrebbe essere diversamente» .
Maria Volpe
14 giugno 2005 corriere.it
Non in nostro nome
L’hanno chiamata “battaglia per le donne”, ma sognano un universo femminile che non c’è
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Roma.
L’hanno chiamata, fino all’ultimo, una “battaglia in nome delle donne”, della loro salute, del diritto di scegliere se e come essere madri. “In nome delle donne” è stato gaglioffamente evocato, in caso di sconfitta referendaria, lo spettro della revisione delle leggi sul divorzio e sull’aborto, e il medioevo prossimo venturo che avrebbe avvolto nelle tenebre il meraviglioso mondo dei desideri tecno-esaudibili, già orribilmente compromesso dalla feroce legge 40. “In nome delle donne”, il marketing referendario non si è fatto mancare niente, dalla Bellucci neo-mamma a Domenica in alla Panicucci incinta sulla copertina di Gente, dalla Ferilli alla Dandini, dalla Ventura alla Cortellesi, dalle “mogli che votano Sì, diversamente dai mariti” ai “mariti che votano Sì, proprio come le mogli”. Sempre “in nome delle donne” si è data la parola a grandi luminari che nel loro curriculum vantano signore sessantenni fecondate con ovociti “donati” e con bombardamenti ormonali adeguati all’età.
Ora che i risultati del referendum sono lì, inequivocabili, ora che si può misurare la distanza del paese reale dal palcoscenico dell’Ambra Jovinelli e dalla bioetica da avanspettacolo, ora è chiaro che il vero errore dei referendari non è stato solo quello di aver scommesso su un paese che non esiste. L’errore più imperdonabile è stato di aver immaginato un universo femminile che non c’è, fatto di donne sdraiate sulla religione del desiderio, del “diritto al figlio”, della delega alle logiche della tecnica, di affidamento al mercato delle illusioni. Quel femminile inventato ha dilagato sui quotidiani, in televisione, sui rotocalchi, sui giornali femminili, praticamente senza eccezioni, infiocchettato di retorica materna ottocentesca riciclata nel postmoderno desiderante.
Una valanga. E dopo alcune deboli resistenze, molte delle donne (delle femministe) che da anni producono pensiero critico sulle tecniche che toccano il corpo femminile e il desiderio di maternità, hanno messo la sordina ai dubbi e si sono arrese alla logica referendaria e ai “quattro Sì”. Non tutte, in verità. Alcune, come Alessandra di Pietro e Paola Tavella, non hanno rinunciato a tenere il filo di quel pensiero. E a rivendicarlo in una lunga lettera che il Foglio ha pubblicato dopo che da dieci giorni girava sul web, nella quale scrivevano: “Pensiamo che l’uso della procreazione medicalmente assistita non vada banalizzato. Siamo preoccupate e sbalordite che la campagna referendaria abbia trasformato le mere condizioni di accesso a una tecnica in una ‘battaglia di civiltà e di libertà per le donne’, e addirittura in un baluardo dell’autodeterminazione”.
I Sì della Mafai e quelli della Pollastrini
Neanche una persona accorta come Miriam Mafai a quell’equazione ha mostrato di credere davvero. Scriveva sabato su Repubblica: “I quesiti referendari per i quali andremo a votare domani sono del tutto diversi, da quelli che abbiamo affrontato e vinto nel passato, nel 1974 e nel 1981. Non possono cioè essere visti come il completamento delle pur importanti battaglie condotte allora all’insegna dei diritti individuali, ma piuttosto come i primi di una fase affascinante e drammatica nella quale la politica dovrà misurarsi con le nuove conquiste scientifiche per regolarne l’esercizio e l’applicazione”. Detto da lei, che ha partecipato in prima linea alla battaglia per quattro Sì ai referendum, vale il doppio. Così come vale il richiamo di Barbara Spinelli sulla Stampa di domenica. Convinta, a sua volta, che fosse indispensabile affrontare “la bufera della scelta”, ostile all’astensione e preoccupata, come la Mafai, della difesa della laicità dello Stato, ma ben consapevole che “ci si interroga sulle imperfezioni di una legge, ma al contempo anche sul senso della vita, della morte. Ci si interroga su se stessi ma si decide anche sulla vita che verrà, e che non ci apparterrà perché nessun figlio è nostro”. Musica ben diversa dall’ultimo e inutile appello “da donna a donna” delle diessine: “Insieme abbiamo sconfitto la vergogna dell’aborto clandestino, difeso la nostra dignità… Insieme, con il divorzio, abbiamo fatto vincere la libertà di far diventare famiglia i legami d’amore. Ogni volta che nel nostro paese si è condotta una battaglia in nome della libertà femminile la voce delle donne si è fatta sentire limpida e forte”. La Pollastrini non sarà d’accordo, ma anche stavolta è andata così.