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copio la bibliografia in una journal entry su BC.com, così chi vuole può passare con facilità dal film al libroCentro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato”
Umberto Santino - Da “La mafia in casa mia” a “I cento passi”
Il film ha il merito di portare a un pubblico molto più vasto di quello che siamo riusciti a raggiungere fino ad ora una storia che, contrariamente a quello che abbiamo letto e sentito, non è per nulla provinciale, minore o datata. Questa storia l’aveva già raccontata la madre di Peppino Impastato, Felicia Bartolotta, in un libro pubblicato nel 1986, La mafia in casa mia, dove ha ripercorso i suoi rapporti con il marito mafioso e il figlio ribelle, parlando della sua rinuncia alla vendetta e rinnovando la sua richiesta di giustizia senza rassegnarsi a non averla per lunghi anni. L’aveva raccontata uno dei compagni di Peppino, Salvo Vitale, nel libro Nel cuore dei coralli, e l’avevano riproposta Claudio Fava in un servizio televisivo ripreso nelle pagine del libro Cinque delitti imperfetti, Luciano Mirone in un capitolo del libro Gli insabbiati e decine di giornalisti che hanno intervistato la madre, sempre pronta a raccontarsi e a denunciare. Ventidue anni di parole, di immagini, che certo non hanno raggiunto il pubblico che può raggiungere un film premiato a Venezia e che sta avendo un notevole successo ma che non possono essere cancellati dalla smemoratezza di quanti hanno parlato di “delitto dimenticato” e di “vent’anni di silenzio”.
Il film è intenso e coinvolgente e il personaggio Peppino Impastato è interpretato con intelligente immedesimazione, ma, ad essere sincero, non tutto mi è parso convincente. La metafora dei cento passi è suggestiva, ma la realtà era ancora più drammatica: Peppino la mafia l’aveva in casa e nella sua parentela c’erano capimafia storici come Nick Impastato e Cesare Manzella, rispetto ai quali Badalamenti era un rozzo parvenu (“Non sapeva neanche pulirsi il naso”, dice la madre ne La mafia in casa mia). Le sequenze iniziali ricalcano l’immaginario corrente e c’è una lunga tirata di Badalamenti che s’impanca a maestro di vita, anche se poi si scopre che è un sogno-incubo di Peppino: l’intento di “umanizzare” anche il capomafia ha preso un po’ troppo la mano.
Le sequenze dopo il delitto mostrano il maggiore dei carabinieri Subranni che imbocca la pista del terrorista-suicida e i compagni di Peppino con una pietra macchiata di sangue, prova che Peppino, prima di essere collocato sul binario, era stato ucciso o tramortito. Ma non ci furono solo i carabinieri a depistare. La stampa inscenò un’indegna gazzarra, ad eccezione del “Quotidiano dei lavoratori” e di “Lotta continua” che si apprestavano a chiudere.
Il film si chiude con il funerale e le bandiere rosse, una sorta di apoteosi di Peppino, ma purtroppo le cose non andarono così. Allora non c’erano i ragazzi delle scuole, i compaesani di Peppino erano pochi, moltissimi venivamo da fuori. La scritta finale ricorda che dopo vent’anni la procura di Palermo ha incriminato Badalamenti per l’omicidio di Giuseppe Impastato, ma la decisione della procura è venuta “grazie all’azione dei famigliari, dei compagni di Peppino e del Centro Impastato”, come si leggeva in una bozza della sceneggiatura inaspettatamente finita nel cestino. Senza questo impegno che ha portato alla raccolta di nuovi elementi d’indagine, alla presentazione di esposti, dossier, libri, un caso più unico che raro di collaborazione-stimolo della giustizia, anche l’inchiesta si sarebbe arenata.
Se la storia di Impastato e dei suoi compagni è emblematica di una stagione di protagonismo e di lotte che costituiscono il meglio del ‘68 e non la sua versione provinciale e sbrindellata (che la mafia non fosse un residuo arcaico ma fosse destinata a crescere e a dilagare allora lo capirono in pochi e questa intuizione, che si concretò nella campagna del Manifesto di Palermo per la “espropriazione della proprietà mafiosa” più di dieci anni prima della legge antimafia, vale più di tanti slogans destinati a un rapido tramonto), la storia del dopo delitto non è da meno. Con la morte di Impastato si apre una vicenda fatta di depistaggi, di inerzie, di ritardi delle forze dell’ordine e della magistratura, come di grande impegno della madre, del fratello, dei compagni rimasti sulla breccia, alcuni dei quali hanno rischiato consapevolmente, di noi del Centro siciliano di documentazione, nato nel 1977 e dedicato a Impastato quando tanti lo consideravano un terrorista maldestro o disperato. L’anno dopo l’assassinio abbiamo promosso, con Democrazia proletaria, una manifestazione nazionale contro la mafia, la prima della storia d’Italia, e allora parlare di mafia oltre il ristretto orizzonte siciliano era suscitare un fantasma sconosciuto e impalpabile. Eppure vennero in duemila da tutto il Paese. Come si può vedere scorrendo le pagine del volume in cui abbiamo raccolto gli atti giudiziari (L’assassinio e il depistaggio), l’inchiesta frettolosamente archiviata venne riaperta, è stata richiusa e riaperta varie volte e finalmente si è arrivati a risultati impensabili fino a qualche anno fa: il vice di Badalamenti, Vito Palazzolo, il 5 marzo 2001 è stato condannato a trent’anni di reclusione e Badalamenti l’11 aprile 2002 è stato condannato all’ergastolo. Nel 1998, su sollecitazione del Centro, presso la Commissione parlamentare antimafia si è costituito un comitato sul “caso Impastato” e il 6 dicembre del 2000 è stata approvata una relazione in cu si dice chiaramente che rappresentanti delle istituzioni (carabinieri e magistratura) hanno avuto un ruolo nel depistaggio delle indagini. Tutto questo è il frutto di un lavoro quotidiano che ha trovato in alcuni magistrati, come Costa, Chinnici, Caponnetto e Falcone, e in pochi altri la volontà di portare alla luce una verità che era ed è scomoda.
Il giorno dopo i funerali i compagni mi chiesero di parlare in un comizio che doveva chiudere la campagna per le elezioni comunali in cui Peppino era candidato. Ricordo che le finestre del corso di Cinisi erano chiuse e decisi di rivolgermi a chi stava dietro le finestre ad ascoltare senza farsi vedere: “Se queste finestre non si apriranno il lavoro di Impastato è stato inutile”. Dopo ci sono stati i grandi delitti e le stragi, è cresciuta una coscienza nuova, ma i processi di cambiamento sono lenti e non irreversibili. Molte finestre, a Cinisi e altrove, sono rimaste chiuse.
Negli anni ‘70 si pensava che fossero possibili mutamenti di fondo e si nutrivano grandi attese e forti speranze. Oggi dobbiamo fare i conti con la globalizzazione che aggrava il distacco tra paesi ricchi e paesi poveri, rilancia l’accumulazione illegale su scala mondiale e moltiplica le mafie, con il fallimento delle grandi prospettive di cambiamento, eppure l’impegno di Impastato (che sapeva coniugare la radicalità delle scelte, a cominciare dalla rottura con il padre, con la complessità dell’azione antimafia, fatta di denunce documentate e puntuali, di lotte sociali, di iniziative culturali e con un continuo ricorso allo sbeffeggiamento e alla satira, che dai mafiosi è stato considerato un delitto di lesa maestà) è ancora attuale.
“Con le idee e il coraggio di Peppino noi continuiamo”, si leggeva sullo striscione che apriva i funerali di Peppino. E’ un impegno duro e difficile e non sempre è stato mantenuto. Il film riporta ai nostri giorni una storia che tanti volevano chiudere e che invece è continuata e abbiamo ragione di credere che continuerà. L’interesse e la commozione con cui moltissimi, soprattutto i giovani, seguono la proiezione, ci aiutano a pensare che il lavoro di questi anni, spesso condotto in grande isolamento, abbia dato i suoi frutti.
@mazzone ha scritto:Emmh scusate ho un dubbio quacuno mi conferma che la canzone "i 100 passi" dei Modena City Ramblers parla proprio di questo fatto??