Al lavoro!
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Nel 3d sul Libano la discussione è deviata, per qualche post, sul tema delle delocalizzazioni.
Questa sera, gironzolando qui e là per la rete sono capitata su questo sito: http://odesk.com/
In sostanza, e per i non anglofoni, attraverso questo sito chiunque, in qualunque angolo del pianeta, può assumere un programmatore che lavorerà da casa sua in un angolo magari molto lontano del pianeta. Se siete programmatori potete "offrivi", indicando le vostre competenze, le vostre esperienze e, soprattutto, quanto "costate".
Come potrete notare esplorando il sito, la maggior parte delle offerte arriva da Paesi "poveri" o in via di sviluppo, e i programmatori si offrono per la metà del costo dei loro colleghi, per esempio, statunitensi.
Io trovo tutto questo assolutamente aberrante. Voi cosa ne pensate?
Questa sera, gironzolando qui e là per la rete sono capitata su questo sito: http://odesk.com/
In sostanza, e per i non anglofoni, attraverso questo sito chiunque, in qualunque angolo del pianeta, può assumere un programmatore che lavorerà da casa sua in un angolo magari molto lontano del pianeta. Se siete programmatori potete "offrivi", indicando le vostre competenze, le vostre esperienze e, soprattutto, quanto "costate".
Come potrete notare esplorando il sito, la maggior parte delle offerte arriva da Paesi "poveri" o in via di sviluppo, e i programmatori si offrono per la metà del costo dei loro colleghi, per esempio, statunitensi.
Io trovo tutto questo assolutamente aberrante. Voi cosa ne pensate?
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in merito alla delocalizzazione del lavoro sto leggendo un illuminante libr che ha trattato questo argomento con dettagli a me del tutto oscuri
federico Rampini: l'impero di Cindia
A esempio sapete che costa molt meno far fare un paio di ore di ripetizoni di algebra al proprio figlio prendendo un prof. Indiano connesso ad internet da Bangalore piuttosto che andare a casa di uno che sta a manattahn? senza parlare dei call center l'India è anglofona e riesco a imitare gli accenti delle parti diverse degli states; se ti fosse esploso il pc chiami la DELL e senti una rassicurante voce con accento del midwest che puo aiutarti peccato che stia a 8000 miglia a Bombay....
agghiaccianto a dir poco
federico Rampini: l'impero di Cindia
A esempio sapete che costa molt meno far fare un paio di ore di ripetizoni di algebra al proprio figlio prendendo un prof. Indiano connesso ad internet da Bangalore piuttosto che andare a casa di uno che sta a manattahn? senza parlare dei call center l'India è anglofona e riesco a imitare gli accenti delle parti diverse degli states; se ti fosse esploso il pc chiami la DELL e senti una rassicurante voce con accento del midwest che puo aiutarti peccato che stia a 8000 miglia a Bombay....
agghiaccianto a dir poco
Il nostro compito e' guardare il mondo e vederlo intero. Occorre vivere piu' semplicemente per permettere agli altri semplicemente di vivere.
- Comandante Lupo
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Scusatemi... non voglio rompervi le scatole... però anche questo 3d si preannuncia "caldo", quindi fate conto che "io sia una zanzara che punzecchia il grosso cavallo ateniese" (Cit. Il processo di Socrate).
Bisogna partire da 2 dati di fatto: la manodopera qui da noi costa. Chi delocalizza abbatte i costi di produzione.
Appare chiaro che se in Italia, ad esempio, ci mettessimo a varare leggi che impediscono la delocalizzazione dei servizi o delle produzioni le nostre aziende verrebbero surclassate da quelle del resto dei paesi sviluppati.
In pratica in ogni Stato nazionale, gli imprenditori sono presi tra 2 fuochi: il primo è quello delle leggi di mercato che ti spingono a delocalizzare per essere competitivo, il secondo è quello delle leggi "locali" che ti impongono, o imporrebbero, di lavorare solo sul suolo nazionale.
Secondo me ci sono solo 2 soluzioni a un problema del genere. O si muove tutto il mondo sviluppato di comune accordo e si organizza per darsi delle identiche regole di condotta (e penso al g8 ) oppure si aspetta che le strutture industriali esportate creino nelle società "riceventi" lo stesso costo della vita/manodopera che abbiamo noi ora.
In pratica credo che sul lungo periodo i paesi poveri/inviadisviluppo in cui le fabbriche occidentali vengono aperte, potrebbero svillupare contrattualità sindacale simile alla nostra, richiedere salari più alti, aumentare i consumi e quindi ricreare un economia simile alla nostra eliminando i benefici di aprire all'estero per le nostre imprese.
Prendendo atto che l'ultima ipotesi è fantascientifica almeno per i prosimi decenni, sono giunto a una conclusione:
Comunque vada sarà un casino...
Bisogna partire da 2 dati di fatto: la manodopera qui da noi costa. Chi delocalizza abbatte i costi di produzione.
Appare chiaro che se in Italia, ad esempio, ci mettessimo a varare leggi che impediscono la delocalizzazione dei servizi o delle produzioni le nostre aziende verrebbero surclassate da quelle del resto dei paesi sviluppati.
In pratica in ogni Stato nazionale, gli imprenditori sono presi tra 2 fuochi: il primo è quello delle leggi di mercato che ti spingono a delocalizzare per essere competitivo, il secondo è quello delle leggi "locali" che ti impongono, o imporrebbero, di lavorare solo sul suolo nazionale.
Secondo me ci sono solo 2 soluzioni a un problema del genere. O si muove tutto il mondo sviluppato di comune accordo e si organizza per darsi delle identiche regole di condotta (e penso al g8 ) oppure si aspetta che le strutture industriali esportate creino nelle società "riceventi" lo stesso costo della vita/manodopera che abbiamo noi ora.
In pratica credo che sul lungo periodo i paesi poveri/inviadisviluppo in cui le fabbriche occidentali vengono aperte, potrebbero svillupare contrattualità sindacale simile alla nostra, richiedere salari più alti, aumentare i consumi e quindi ricreare un economia simile alla nostra eliminando i benefici di aprire all'estero per le nostre imprese.
Prendendo atto che l'ultima ipotesi è fantascientifica almeno per i prosimi decenni, sono giunto a una conclusione:
Comunque vada sarà un casino...
- last-unicorn
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Può essere verissimo ciò che dici (anzi lo è!) però tieni presente che così facendo si hanno margini di ribasso del prezzo che altrimenti non potresti avere senza andare a lavorare sottocosto.Io credo poco alla favola che le aziende se ne vadano perché qua non possono rimanere competitivi. Il fatto è che producono di là ai prezzi di là per poi vendere di qua a prezzi di qua, ampliando non poco il margine di profitto.
Magari ci vorrebbe una legge (comune a tutti i paesi, almeno quelli più ricchi) che calmierasse i prezzi in base alle spese di produzione (tipo: 2/3 costi di produzione, 1/3 ricavi dell'azienda).
- zazie
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Concordo, il problema è serio e aberrante la delocalizzazione selvaggia proposta dal sito.
Tanto per cominciare si potrebbe forzare chi usa la manodopera straniera a investire in strutture e servizi nel paese di provenienza. Credo che esistano già sistemi di certificazione, in ogni caso dovremmo essere anche noi consumatori a operare scelte responsabili boicottando i prodotti delle aziende che non seguono un codice etico in questa materia.
Ho sentito persone insospettabili affermare che è giusto che un'azienda delocalizzi (a prescindere da come) se questo serve a mantenerla in salute.
Ecco, no grazie. Risolvere i problemi della propria economia diventando sciacalli è non solo moralmente riprovevole ma di dubbia efficacia
Tanto per cominciare si potrebbe forzare chi usa la manodopera straniera a investire in strutture e servizi nel paese di provenienza. Credo che esistano già sistemi di certificazione, in ogni caso dovremmo essere anche noi consumatori a operare scelte responsabili boicottando i prodotti delle aziende che non seguono un codice etico in questa materia.
Ho sentito persone insospettabili affermare che è giusto che un'azienda delocalizzi (a prescindere da come) se questo serve a mantenerla in salute.
Ecco, no grazie. Risolvere i problemi della propria economia diventando sciacalli è non solo moralmente riprovevole ma di dubbia efficacia
- annanda
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il problema è che se vai a comprare un paio di scarpe con pochi soldi in tasca e ne trovi un paio che costano mooolto meno dell'altro
(e poi magari chiedi al commesso dove sono gli stabilimenti di quella ditta e questo ti guarda come se gli avessi chiesto un paio di scarpe antigravitazionali)
è giocoforza che comunque chi delocalizza venga in qualche modo premiato
dall'ignoranza collettiva e dalla tendenza a guardare il prezzo, per obbligo o per scelta

(e poi magari chiedi al commesso dove sono gli stabilimenti di quella ditta e questo ti guarda come se gli avessi chiesto un paio di scarpe antigravitazionali)
è giocoforza che comunque chi delocalizza venga in qualche modo premiato
dall'ignoranza collettiva e dalla tendenza a guardare il prezzo, per obbligo o per scelta
Questa mi pare una buona proposta!!!! Ma, come tale, non verrà mai attuataMagari ci vorrebbe una legge (comune a tutti i paesi, almeno quelli più ricchi) che calmierasse i prezzi in base alle spese di produzione (tipo: 2/3 costi di produzione, 1/3 ricavi dell'azienda).

Gli errori in questo post sono dovuti alla SDM(Sindrome da Dito Mauco)
- shandy
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Altro che fantascientifica questa ipotesi!In pratica credo che sul lungo periodo i paesi poveri/inviadisviluppo in cui le fabbriche occidentali vengono aperte, potrebbero svillupare contrattualità sindacale simile alla nostra, richiedere salari più alti, aumentare i consumi e quindi ricreare un economia simile alla nostra eliminando i benefici di aprire all'estero per le nostre imprese.
Io credo che andrà esattamente al contrario. Per rimanere nell'esempio fornito dal sito, un programmatore di là lavora a 10, perché quella è la cifra che a lui basta per vivere. Per poter sopravvivere qui un programmatore deve lavorare a 20. Mi sembra chiaro chi sarà scelto. Il programmatore di qui, per poter essere competitivo, dovrà abbassare il suo prezzo e quindi lavorare di più per arrivare a guadagnare quanto gli serve per sopravvivere.
Inoltre, il lavoratore di là ha sicuramente meno "pretese" di quello di qua, visto che forse non sospetta nemmeno che un lavoratore possa avere dei diritti. Questo fa sì che per non essere mandati a remare, anche i lavoratori di qui dovranno cominciare ad accettare cose che pensavamo fossero impossibili.
Il tutto si avvicina, e di molto, al concetto di schiavitù.
Legato al fatto in sé di lavorare da casa, quello che mi lascia perplessa è che così facendo viene meno quella sana separazione tra tempo del lavoro e tempo della vita privata, che è importante mantenere per non finire ingoiati dal lavoro.
Ma al di là di tutto questo, c'è un altro aspetto che a me fa molta paura e che è molto legato alla precarizzazione del lavoro.
Lavorando ciascuno da casa sua ai quattro angoli del pianeta qualunque contrattazione o rivendicazione collettiva diventa impossibile. Probabilmente non conosco nemmeno il nome dei miei "colleghi", immaginiamo come posso confrontarmi con loro per sapere se godiamo dello stesso trattamento, degli stessi diritti e se abbiamo gli stessi doveri. Per decidere insieme a loro una serie di richieste da porre ai datori di lavoro per migliorare la nostra condizione.
La stessa cosa succede da noi con la precarizzazione: se cambio lavoro ogni 6 mesi diventa difficile potersi organizzare in strutture sindacali. E questo è uno dei motivi per cui i sindacati tradizionali hanno dei problemi a relazionarsi con le nuove forme contrattuali (ma è solo uno e solo perché stamattina sono molto gentile coi sindacati e non ho voglia di dire quello che invece penso davvero

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- shandy
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E mentre facevo il mio giro giornaliero per quotidiani ho trovato questo:
l'Unità ha scritto:Precari di Stato. Per il Censis sono più nel pubblico che nell'industria
È la stagione del precario di Stato. Addio al mito del salario sicuro nella pubblica amministrazione, ormai è record di lavoratori atipici. Secondo un rapporto del Censis sono il 10% del totale, più che in fabbrica.
L'industria ha infatti un tasso di atipicità dell' 8%, che risulta di due punti inferiore a quello della pubblica amministrazione, dove l´8% lavoratori a tempo determinato si somma ad un 1,4% di collaboratori.
Ad essere investito dalla precarietà è in primis l´universo delle professioni non qualificate, dove si contano 22,4 atipici ogni 100 occupati. Ma l'atipicità dei contratti tende ad addensarsi anche nei gradini più alti della piramide professionale: il 10,5% nelle professioni intellettuali, il 18,4% in quelle tecniche intermedie e il 13,3% in quelle esecutive amministrative. Per i lavoratori a progetto, tale tendenza è ancora più accentuata: sono infatti concentrati in maggioranza nelle professioni tecniche intermedie (33%) e intellettuali (18,3%), e poco o nulla presenti tra quelle non qualificate (6,2%).
Il record di precari, secondo il Censis, si registra in quelli che dovrebbero essere settori "d´élite" del terziario. Attività ricreative, culturali, sportive, di ricerca e sviluppo: qui il tasso atipicità supera la soglia del 25%. Anche nel comparto dell'istruzione, pur non includendo solo idipendenti pubblici, i contratti atipici arrivano al 20,2%.
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Non voglio fare l'avvocato del diavolo, però: se un' azienda è in perdita il suo titolare che deve fare?
Deve delocalizzare e salvarla/si oppure andare sul lastrico?
E' chiaro se si delocalizzano aziende floride e con lauti profitti qualcuno deve intervenire, magari vietando o appunto ponendo delle clausole, però non credo che il principio di esportare la produzione possa venire messo in discussione! (almeno... credo!
)
E comunque certe cose non le risolveremo mai da soli. Ci vogliono organi transnazionali che dettino leggi comuni. Mica che io vieto di muoversi e tedeschi e americani aprono in Burkina Faso....
Deve delocalizzare e salvarla/si oppure andare sul lastrico?
E' chiaro se si delocalizzano aziende floride e con lauti profitti qualcuno deve intervenire, magari vietando o appunto ponendo delle clausole, però non credo che il principio di esportare la produzione possa venire messo in discussione! (almeno... credo!

E comunque certe cose non le risolveremo mai da soli. Ci vogliono organi transnazionali che dettino leggi comuni. Mica che io vieto di muoversi e tedeschi e americani aprono in Burkina Faso....
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Ciao, thread molto interessante.
Essendo dall'altra 'parte', nel senso che sono traduttrice lavoratrice autonoma, posso dire che ho vissuto questo aspetto della globalizzazione in presa diretta. Il succo starebbe, da parte del lavoratore, nell'offrirsi all'azienda X del paese Y alle stesse tariffe del paese Y, per evitare di essere accusati di dumping da parte dei traduttori residenti nel paese Y. Naturalmente in tanti non lo fanno, per motivi infiniti, il più importante del quali è una cattiva informazione sul mercato del lavoro in cui vanno ad offrirsi (se conosci le tariffe del mercato non ti svendi). Anche il traduttore che vive in Argentina, per esempio, dovrebbe (nel migliore dei mondi possibili, in fondo lo consente sia la legge che il mercato) offrirsi negli USA a prezzo USA.
Poi ovvio che ci sarà sempre chi offre a meno di te, il succo è far valere la differenza in termini di qualità del prodotto che offri. (Un esempio sulla qualità: preferisci un paio di scarpe dei cinesi, che dopo due mesi le devi ricomprare, o scarpe italiane, che costano di più ma della cui qualità sei più certo?) Altro esempio: in CH pagano le traduzioni mooolto meglio che in Italia. Ma se non so da quale tariffa minima partono, come faccio ad offrire un prezzo equo per il mercato svizzero, senza essere accusata di dumping? E dove trovo le tariffe? In Internet...
Shandy dice:
Inizi pensando che bello, ho il vantaggio che mi organizzo le giornate come voglio, e finisci che, nei momenti di punta, a malapena riesci a dormire (appunto, è mezzanotte passata...). Tutto sta nell'organizzarsi... e nel rispettare i propri 'momenti sacri' (che so, non rinunciare per nulla al mondo alla corsa delle sei) senza i quali scleri. E poi, essenziale è fare un lavoro che ti piace veramente, altrimenti è veramente una galera
sta tutto nel cambiare mentalità, anche se è dura. Se diventi autonomo per scelta, all'idea sei già abituato in partenza. Capisco che sia più difficile per chi invece lo diventa per necessità.
Essendo dall'altra 'parte', nel senso che sono traduttrice lavoratrice autonoma, posso dire che ho vissuto questo aspetto della globalizzazione in presa diretta. Il succo starebbe, da parte del lavoratore, nell'offrirsi all'azienda X del paese Y alle stesse tariffe del paese Y, per evitare di essere accusati di dumping da parte dei traduttori residenti nel paese Y. Naturalmente in tanti non lo fanno, per motivi infiniti, il più importante del quali è una cattiva informazione sul mercato del lavoro in cui vanno ad offrirsi (se conosci le tariffe del mercato non ti svendi). Anche il traduttore che vive in Argentina, per esempio, dovrebbe (nel migliore dei mondi possibili, in fondo lo consente sia la legge che il mercato) offrirsi negli USA a prezzo USA.
Poi ovvio che ci sarà sempre chi offre a meno di te, il succo è far valere la differenza in termini di qualità del prodotto che offri. (Un esempio sulla qualità: preferisci un paio di scarpe dei cinesi, che dopo due mesi le devi ricomprare, o scarpe italiane, che costano di più ma della cui qualità sei più certo?) Altro esempio: in CH pagano le traduzioni mooolto meglio che in Italia. Ma se non so da quale tariffa minima partono, come faccio ad offrire un prezzo equo per il mercato svizzero, senza essere accusata di dumping? E dove trovo le tariffe? In Internet...
Shandy dice:
Dillo a me!Legato al fatto in sé di lavorare da casa, quello che mi lascia perplessa è che così facendo viene meno quella sana separazione tra tempo del lavoro e tempo della vita privata, che è importante mantenere per non finire ingoiati dal lavoro.


Ennesimo esempio pratico: i traduttori litigano da anni sulla possibilità o meno di costituire un albo, che ancora nonostante tutto non c'è. I colleghi li conosco tramite mailing list, le associazioni di categoria aiutano ma dipende dal tipo di lavoro che fai e dall'associazione. Certo, un sindacato te lo scordi...Ma al di là di tutto questo, c'è un altro aspetto che a me fa molta paura e che è molto legato alla precarizzazione del lavoro.
Lavorando ciascuno da casa sua ai quattro angoli del pianeta qualunque contrattazione o rivendicazione collettiva diventa impossibile. Probabilmente non conosco nemmeno il nome dei miei "colleghi", immaginiamo come posso confrontarmi con loro per sapere se godiamo dello stesso trattamento, degli stessi diritti e se abbiamo gli stessi doveri. Per decidere insieme a loro una serie di richieste da porre ai datori di lavoro per migliorare la nostra condizione.

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p.s. se vi volete arrabbiare anche voi, l'equivalente per i traduttori del sito di cui sopra è www.proz.com. Traduttori che si offrono a prezzi decenti ci sono, ma la maggior parte... lasciamo perdere. Peccato che la stragrande maggioranza delle agenzie che offrono lavoro lo offrano a prezzi stracciati, perchè sanno che tanto qualcuno che accetta c'è sempre
L'importante sta nel lasciar perdere certi siti e cercarsi i clienti all'estero in altro modo...

L'importante sta nel lasciar perdere certi siti e cercarsi i clienti all'estero in altro modo...

Cappero, Alli, mi hai rubato la parola. Una considerazione io la aggiungerei: siamo tutti talmente stupidi da non capire che potremmo usare i vari proz, prot, programz, sbrinz per IMPORRE un livello decente di retribuzione, anziché giocare al ribasso più ignobile. Mica per questioni etiche, ma per solo per riempirsi tutti la pancia, eh.
l
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Laura, quella è un'ottima idea (Yess, ragassi, i colleghi li conosco anche tramite BC
). Il problema sta nel mettersi d'accordo e riuscire a superare l' 'orticellismo imperante', come qualcuno lo chiama in ml...
E credo che questo sia un problema della maggior parte degli autonomi, e anche di quei professionisti con un 'albo-tanto-per-fare' come lo chiama un'amica architetto (che starebbe per 'checcestaaffà che unserveaniente'
)

E credo che questo sia un problema della maggior parte degli autonomi, e anche di quei professionisti con un 'albo-tanto-per-fare' come lo chiama un'amica architetto (che starebbe per 'checcestaaffà che unserveaniente'

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E un'altra cosa: capisco che ci sono aziende che delocalizzano alla ricerca di personale a costo inferiore, però: nessuno obbliga il lavoratore autonomo ad offrirsi a prezzi stracciati. Se un cliente ti fa un prezzo da schifo, semplicemente te ne cerchi un altro
(magari mandando anche il primo gentilmente a ranare - ho detto gentilmente, eh!
)


- shandy
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Scusate. Il trasloco imminente inibisce il funzionamento del mio cervello. Per il momento mi limito a copincollarvi spunti di discussione, ma giuro che presto torno e dico anche come la penso!

la Repubblica ha scritto:Chi sono e quanto guadagnano i giovani senza posto fisso
Un esercito di 250mila atipici, tutti "schiavi elettronici della new economy"
Call center, il girone dei nuovi Cipputi
Al telefono per sette euro l'ora
di BARBARA ARDÙ
ROMA - La fabbrica creava alienati. Quegli uomini alla Charlie Chaplin di Tempi moderni che continuavano a stringere un bullone anche quando era suonata la sirena dell'uscita. Il call center partorisce invece uomini e donne stressati.
Ritmi di lavoro e perenne incertezza sul futuro sono i suoi ingredienti. Che messi insieme o mal miscelati possono diventare esplosivi. Per andare in bagno bisogna attendere che scatti il semaforo verde. Tra una telefonata e l'altra non c'è riposo, neanche un minuto. E ogni volta che si prende in mano la cornetta c'è un contatore che avverte quando è ora di chiudere la comunicazione. Un controllore "anonimo", ma infallibile, che forse fa rimpiangere il vecchio ufficio tempi e metodi di tayloriana memoria che misurava, cronometro alla mano, l'efficienza di Cipputi alla catena di montaggio.
I nuovi Cipputi sono loro, gli operatori di call center, 250mila persone in tutta Italia (80mila occupati con contratto a progetto secondo Assocontact, l'associazione di categoria). Molti lavorano al Sud, perché è lì che le aziende, in tutto 700, trovano conveniente installare i call center. Rispondono al telefono in media per cinque ore al giorno, secondo un'indagine di Rifondazione comunista. Guadagnano tra i 5 e i 7 euro l'ora. All'azienda ne costano 9-10 euro se la lavorano a progetto, 16 se hanno un contratto a tempo indeterminato.
Sono per lo più giovani, venti, trent'anni, ma anche quaranta e quasi tutti hanno un titolo di scuola media superiore, qualcuno ha in tasca anche la laurea. Sono assillati, secondo l'indagine di Rifondazione, da mobbing, ripetitività delle mansioni, mancanza di prospettive e condizioni ambientali di lavoro. Subiscono pressioni di ogni genere. Dalle ferie negate, al consiglio di non ammalarsi, perché rischiano di non essere riconfermati, alle chiamate per Pasqua, Natale, i mesi estivi.
Fanno tutti la stessa cosa, parlano al telefono. Ma c'è una sottile distinzione. Ci sono gli inbound, cioè coloro che rispondono alle domande delle persone che telefonano e gli otbound, quelli che invece alzano la cornetta per chiamare persone cui sottoporre domande per indagini di mercato. I primi, secondo l'ultima circolare del ministero del Lavoro, possono aspirare a un contratto a tempo indeterminato. Gli altri, invece, potrebbero essere inquadrati anche come lavoratori a "progetto". Una distinzione che fa una certa differenza. Di sicuro sono tutti scontenti.
Francesco, il nome è di fantasia, è impiegato da dieci anni alla Atesia, l'azienda obbligata dagli ispettori del lavoro di Roma, ad assumere a tempo indeterminato 3200 lavoratori attualmente a progetto. Ha 40 anni, è sposato e lavorando per 5 ore al giorno guadagna intorno ai 600 euro al mese. Viene pagato in base al numero di telefonate fatte. Talmente tante che alla fine la concentrazione sparisce. "Dopo aver risposto a 120 chiamate in quattro ore spesso esco dall'ufficio salgo in macchina e ho delle difficoltà a guidare", ha raccontato Margherita alla Cgil che ha intervistato dodici lavoratori dei call center di Genova.
Tutti "schiavi elettronici della new economy", come li definisce Claudio Cugusi, nel suo libro Call center, indagine impietosa su una categoria con contratti di lavoro dove a un certo punto compare un comma che recita: "gravidanza, malattia e infortunio sono causa di sospensione del rapporto di lavoro".
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- 2teepot
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Io sono per la delocalizzazione nei paesi in via di sviluppo perché da loro un’opportunità .
E anche se non crea una conseguente giustizia sociale , un relativo aumento del benessere può crearne la base iniziale .
Del resto , dallo schiavismo al colonialismo , ed ora la delocalizzazione , lo sfruttamento della manodopera è leggermente migliorato … O no ?
E anche se non crea una conseguente giustizia sociale , un relativo aumento del benessere può crearne la base iniziale .
Del resto , dallo schiavismo al colonialismo , ed ora la delocalizzazione , lo sfruttamento della manodopera è leggermente migliorato … O no ?

Si abbraccia un'ombra e si ama un sogno. (Soderberg)
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- Sapphire78
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Ti rispondo come risponderebbe uno di quei geni degli Yes Men.
La guerra tra Nord e Sud america fu una delle più sanguinose della storia. Sebbene noi tutti siamo contro lo schiavismo, vi chiedo di seguirmi in questo ragionamento. Se il nord non si fosse intromesso nelle faccende del sud, e dunque lo schiavismo non fosse mai stato abolito, come sarebbe ora la vita?
Facciamo l’esempio di uno schiavo mantenuto in italia. Ci costerebbe:
-almeno 300 euro di alloggio al mese
-almeno 60 euro di vestiaro al mese
-altri 60 euro almeno di vitto (se mangia poco...)
-spese mediche: circa 500 euro l’anno, e questo se è in buona salute e non viene da uno dei paesi contaminati
Bene. Questo lo scenario possibile. Ma se invece noi quello schiavo lo tenessimo, chessò, in Gabon?
- con 300 euro pagherebbe una casa per 10 anni, non per un mese
- Con 60 euro vestirebbe se stesso e tutto il suo vicinato
- con 60 euro per il cibo mangerebbe per un anno
- con 500 euro si potrebbe curare per tutta la vita
Risulta così evidente che il Nord ha gravemente interferito nelle faccende del Sud, il cui governo e i cui organismi economici si sarebbero presto accorti dello svantaggio di mantenere uno schiavo in loco.
Con questo nuovo metodo, invece, non solo il datore di lavoro risparmia, ma lo schiavo può continuare a vivere nel suo habitat naturale, libero.
La guerra tra Nord e Sud america fu una delle più sanguinose della storia. Sebbene noi tutti siamo contro lo schiavismo, vi chiedo di seguirmi in questo ragionamento. Se il nord non si fosse intromesso nelle faccende del sud, e dunque lo schiavismo non fosse mai stato abolito, come sarebbe ora la vita?
Facciamo l’esempio di uno schiavo mantenuto in italia. Ci costerebbe:
-almeno 300 euro di alloggio al mese
-almeno 60 euro di vestiaro al mese
-altri 60 euro almeno di vitto (se mangia poco...)
-spese mediche: circa 500 euro l’anno, e questo se è in buona salute e non viene da uno dei paesi contaminati
Bene. Questo lo scenario possibile. Ma se invece noi quello schiavo lo tenessimo, chessò, in Gabon?
- con 300 euro pagherebbe una casa per 10 anni, non per un mese
- Con 60 euro vestirebbe se stesso e tutto il suo vicinato
- con 60 euro per il cibo mangerebbe per un anno
- con 500 euro si potrebbe curare per tutta la vita
Risulta così evidente che il Nord ha gravemente interferito nelle faccende del Sud, il cui governo e i cui organismi economici si sarebbero presto accorti dello svantaggio di mantenere uno schiavo in loco.
Con questo nuovo metodo, invece, non solo il datore di lavoro risparmia, ma lo schiavo può continuare a vivere nel suo habitat naturale, libero.




Reginetta dei telecomandi, di gnosi assolute che asserisci e domandi (Culodritto, Guccini)
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segrete.” (Pessoa)
- zazie
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Correndo il rischio di andare leggermente OT vi segnalo un bell'articolo apparso su Internazionale di questa settimana: La buona società. In poche parole: il capitalismo etico conviene, e non solo ai lavoratori ma soprattutto alle aziende.
Dalle ricerche effettuate sembra che l'adozione di un codice etico (sia nella produzione, quindi a favore del consumatore, sia nei confronti dei dipendenti) incrementi in modo proporzionale il fatturato delle aziende.
Nello stesso articolo viene anche presa in esame e criticata, RED, l'iniziativa sostenuta da Bono e altri (accusata in sostanza di non alimentare lo sviluppo)
Un altro mondo è possibile, eccome
Dalle ricerche effettuate sembra che l'adozione di un codice etico (sia nella produzione, quindi a favore del consumatore, sia nei confronti dei dipendenti) incrementi in modo proporzionale il fatturato delle aziende.
Nello stesso articolo viene anche presa in esame e criticata, RED, l'iniziativa sostenuta da Bono e altri (accusata in sostanza di non alimentare lo sviluppo)
Un altro mondo è possibile, eccome

- Alliandre
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Sapphire, il tuo discorso non farebbe una grinza se si parlasse di lavoratori delocalizzati ma comunque dipendenti di un'azienda, ma non vale per gli autonomi, cui si rivolge il sito citato sopra da Shandy: per loro al contrario varrebbe la possibilità di vivere a poco prezzo nel proprio paese guadagnando però tariffe altissime da paese estero. E questo è possibile.