Salve, ogni giorno, se la cosa vi fa piacere vi postiamo un racconto fra i migliori pervenuti ai nostri concorsi letterari.
Noi siamo un laboratorio di scrittura e una casa editrice.
"La miseria colorata" di Susanna Boccalari
Lo chiamano tutti Lolo, solo Lolo.
Vive, o meglio sopravvive, nella più sporca e lurida periferia di New York, o
forse Lima, Brasilia, Città del Capo, Honk Kong: la città non è importante,
potrebbe appartenere a qualsiasi parte del mondo, come la povertà che lo ha
avvolto in una fredda coperta fin dalle prime ore della sua vita solitaria.
Dovrebbe avere 7/8 anni, ma non ne è sicuro, così come non sa se quella donna
triste e macilenta che gli dicono essere sua madre lo sia davvero. Non ha
neanche idea di come dovrebbe essere una madre.
Lolo però è diverso da quella miriade di altri cuccioli d’uomo abbandonati
a sé stessi con cui gioca e lotta nelle strade di quella crudele città: Lolo
ha i denti bianchissimi e vede la vita a colori, nonostante tutto.
I pochi centesimi che riesce a tenere per sè li spende per comprare
dentifricio, spazzolini e sapone: si lava nei bagni delle stazioni o degli
ospizi per poveri dove ogni tanto trova rifugio.
Quella che chiama madre gli ripete che se avrà denti sani potrà mangiare
qualsiasi cosa gli capiterà di trovare nei bidoni della spazzatura o tra gli
scarti dei supermercati. Nient\'altro.
Oggi Lolo è partito presto, è arrivato in centro viaggiando su un mezzo della
nettezza urbana.
L’autista è uno che ce l’ha fatta ad uscire dalla miseria e, anche se non
potrebbe, carica sempre tre o quattro ragazzini nella cabina del camion: un
lusso iniziare la giornata con un po’ di caldo e un pezzo di pane.
Le feste di Natale sono finite, Lolo e gli altri si contenderanno i cartoni dei
negozi e dei grandi magazzini che venderanno per pochi centesimi alla cartiera.
Le confezioni più belle e colorate Lolo però le nasconde in un vecchio
magazzino: l’anno prossimo le venderà agli angoli delle strade del quartiere
appena meno povero del suo, per contenere regali da poco ma che faranno un
figurone dentro ad una scatola rossa e oro, anche se un po’ ammaccata.
Ma oggi Lolo vuole tentare la sorte nel quartiere dei ricchi, dove i poliziotti
tengono lontani gli straccioni come lui. Riesce ad arrivare fino al vicolo
dietro la biblioteca e qui trova un vero e proprio tesoro.
Scatoloni praticamente nuovi, non si sono dati neanche la briga di ripiegarli.
Ma non sono vuoti! Sono pieni di vecchi libri per bambini e ragazzi: lo
intuisce dai disegni sulle copertine rovinate e da qualche parola che riesce
faticosamente a compitare.
Lolo sa cosa sono i libri: li vede in mano a chi si ferma nei parchi a leggere,
nelle cartelle dei bambini che vanno a scuola, li vede sfogliare da persone
dall’aria importante ed autorevole. Immagina che dentro ci sia qualche cosa
di strano, una magia che “fa cambiare le persone”: ha visto una ragazza dai
capelli rossi leggere un libro e piangere, ma anche dei ragazzi leggerne un
altro e ridere fino alle lacrime. Lacrime, parole e lacrime.
Dalle finestre illuminate della biblioteca vede uomini e donne sfogliare
lentamente e con serietà libroni enormi, scrivere fitto fitto su grandi
blocchi di carta giallina. Deve essere per via di tutte quelle parole…
Lolo carica il tesoro sul suo carrettino, e percorrendo furtivo stradine buie
arriva al suo rifugio: ha impiegato quasi tutto il giorno però è felice. Ha
deciso che i libri non li venderà ai negozietti dell’usato o alla cartiera,
se li terrà e magari andrà dal vecchio Giko, che nella sua cantina umida e
ammuffita insegna qualche rudimento di scrittura e lettura a quei bambini di
nessuno, per imparare le lettere che non conosce bene.
Lolo vuole scoprire la magia delle parole, vuole scoprire, se esiste, il
segreto per crescere diverso, per non essere l’ultimo dei dimenticati, vuole
trovare le parole giuste per dire “ci sono anch’io”, ma senza urlare.
Lolo si addormenta, sotto ad una coperta di cartone, ma questa sera gli pare di
dormire in un letto di piume.
Domani sarà un giorno colorato, come la copertina del libro che tiene ben
stretto: “Il piccolo principe”.
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Re: Un racconto al giorno
"Terra Battuta" di Elisa Pincherle
E’ solo una mattina di fine ottobre: tipica e calda.
“Come si può, madre di Dio?” Tota parla alla sorella, Jessica, senza neanche guardarla.
“Come si può, Santo Iddio: manca il cibo…”, e intanto sminuzza , adoperando un grosso coltello da cucina, minuscoli tocchi di cipolla in pezzetti ancora più microscopici, “…manca l’acqua. Manca il respiro: persino il respiro, Santa Immacolata Maria!” e il tagliere blocca l’ampia lama, attutendo in un tonfo sordo il colpo veloce e forte.
Un occhio le lacrima: lo asciuga con il dorso della mano destra, stringendo l’innocuo pugnale dal manico conciato. Con l’altra stringe un dolore vigliacco ed improvviso, stropicciando gonna e grembiale: appena sotto al ventre, tesissimo.
Il suo urlo attraversa la stanza e sbatte contro la porta semichiusa in legno, gonfia le stoffe dei tendoni a fiori, rimbalza nelle orecchie dei bambini e dei ragazzi, inseguendo il loro gioco nell’aia: nello spiazzo polveroso, alzando gambe troppo magre e pulviscolo rosso, calciato da piedi scalzi e lerci.
“Jessica: è il momento, Santo Iddio!”
La donna ingoia lo stupore che la rendeva immobile innanzi alla scena e, nel sentir quel nominare invano, si scuote immediatamente: si alza e, portando le mani a cono intorno alla bocca, simula un altoparlante, grezzo ed efficace: “Chitoo!”, urla gonfiando le vene del collo, “sta nascendo: per la Madonna!” invoca, emulando.
Vestito di tessuti stropicciati dal sonno e seguito da quel gruppo fanciullo, infantile nuvola intorno ad un’unica palla, Chito arriva di corsa.
Tota, piegata dai colpi nel ventre, cade inginocchiata. Nel suo campo visivo rimane il piccolo Rodrigo che, con metodo, continua a dribblare tra gambe di sedie e tavolo.
La donna l’osserva mentre simula un cross: quando gli appare, come una visione ultraterrena, mentre alza le braccia al cielo, nell’esultanza di un fantomatico quanto immaginario goal, stringe gli occhi forti perché una contrazione, lunga lunga e dolorosa, l’avvisa che sta per partorire.
Il bambino nascerà, invece, dodici ore più tardi: “Tu mi farai dannare”, la prima frase che la madre gli regalerà, baciandolo teneramente sulle labbra.
“Tu mi farai dannare!”, gli dice ancora, urlandoglielo dalla finestra dello stesso cucinotto umido e odoroso: le mani sempre intente a sminuzzar verdure.
Ma il bimbo non l’ascolta: scivola sul selciato grezzo e gretto e sporco, con quella sfera che pare attaccata ai piedi.
Schiva Pedro che, faticando contro ossa vecchie, spinge la sua bicicletta, trainando un carretto carico di stoffe e cartoni.
Rimbalza contro Veronica che, magra e con le ossa sporgenti, stringe il sacchetto della spesa, riempito solo di patate.
Subito riprende a correre, muovendo il volto sotto quei riccioli, tutti annodati come i vagabondi, e alzando le mani, in segno di arresa: non volevo starò più attento.
E Veronica scuote la testa: “Povera Maria: la farà dannare!”
Allora giù per lo stradone, a mangiar terra battuta e calore, fino alla linea del treno: con quel rumore di rimbalzo ad annunciarlo.
E Hugo e Paolo a sbraitare –passa, passa, passa- ma quel pallone precede solo lui e lui soltanto.
Il camioncino di latta arrugginita arriva al passo sostenuto permesso dalla discesa, proprio mentre il dribblaggio lo estranea dal mondo: gli piomba sul fianco, facendolo sussultare come un fantoccio, sbattendolo due volte: prima a terra e poi in aria.
“Tota!” le arriva tra le imposte, “Tuo figlio: alle rotaie!”
E Tota corre e s’inciampa e corre ancora.
Quando lo raggiunge è un bambino più piccolo dei suoi sette anni, con un vistoso taglio sul ginocchio destro. Moccio, lacrime, terra e sangue a sporcargli la bocca e il mento.
Due occhi che chiedono di non esser sgridato per l’imprudenza.
“Tu mi farai dannare!”sorride Maria, chiudendoselo tra le braccia: lui e il gioco che ancora imprigiona stretto.
Nel sole che sta tramontando il bambino chiede alla madre un bacio, promettendo di diventare un grande calciatore. Di diventare qualcuno.
“Tu sei già il mio ragazzo” è la frase che lo accarezza.
Il pallone ancora imprigionato stretto: le gambe penzoloni, verso casa, con la ferita sul ginocchio pulsante e calda sotto un raggio tiepido di sole argentino.
Era il 1967: Diego Armando Maradona , con il volto abbandonato sulla spalla della madre, si addormentava sognando.
Elisa Pincherle
Mi chiamo elisa e mi occupo di parole.
qualche volta le parole si occupano di me.
ma questo: spesso è irrilevante.
più di frequente imbarazzante.
E’ solo una mattina di fine ottobre: tipica e calda.
“Come si può, madre di Dio?” Tota parla alla sorella, Jessica, senza neanche guardarla.
“Come si può, Santo Iddio: manca il cibo…”, e intanto sminuzza , adoperando un grosso coltello da cucina, minuscoli tocchi di cipolla in pezzetti ancora più microscopici, “…manca l’acqua. Manca il respiro: persino il respiro, Santa Immacolata Maria!” e il tagliere blocca l’ampia lama, attutendo in un tonfo sordo il colpo veloce e forte.
Un occhio le lacrima: lo asciuga con il dorso della mano destra, stringendo l’innocuo pugnale dal manico conciato. Con l’altra stringe un dolore vigliacco ed improvviso, stropicciando gonna e grembiale: appena sotto al ventre, tesissimo.
Il suo urlo attraversa la stanza e sbatte contro la porta semichiusa in legno, gonfia le stoffe dei tendoni a fiori, rimbalza nelle orecchie dei bambini e dei ragazzi, inseguendo il loro gioco nell’aia: nello spiazzo polveroso, alzando gambe troppo magre e pulviscolo rosso, calciato da piedi scalzi e lerci.
“Jessica: è il momento, Santo Iddio!”
La donna ingoia lo stupore che la rendeva immobile innanzi alla scena e, nel sentir quel nominare invano, si scuote immediatamente: si alza e, portando le mani a cono intorno alla bocca, simula un altoparlante, grezzo ed efficace: “Chitoo!”, urla gonfiando le vene del collo, “sta nascendo: per la Madonna!” invoca, emulando.
Vestito di tessuti stropicciati dal sonno e seguito da quel gruppo fanciullo, infantile nuvola intorno ad un’unica palla, Chito arriva di corsa.
Tota, piegata dai colpi nel ventre, cade inginocchiata. Nel suo campo visivo rimane il piccolo Rodrigo che, con metodo, continua a dribblare tra gambe di sedie e tavolo.
La donna l’osserva mentre simula un cross: quando gli appare, come una visione ultraterrena, mentre alza le braccia al cielo, nell’esultanza di un fantomatico quanto immaginario goal, stringe gli occhi forti perché una contrazione, lunga lunga e dolorosa, l’avvisa che sta per partorire.
Il bambino nascerà, invece, dodici ore più tardi: “Tu mi farai dannare”, la prima frase che la madre gli regalerà, baciandolo teneramente sulle labbra.
“Tu mi farai dannare!”, gli dice ancora, urlandoglielo dalla finestra dello stesso cucinotto umido e odoroso: le mani sempre intente a sminuzzar verdure.
Ma il bimbo non l’ascolta: scivola sul selciato grezzo e gretto e sporco, con quella sfera che pare attaccata ai piedi.
Schiva Pedro che, faticando contro ossa vecchie, spinge la sua bicicletta, trainando un carretto carico di stoffe e cartoni.
Rimbalza contro Veronica che, magra e con le ossa sporgenti, stringe il sacchetto della spesa, riempito solo di patate.
Subito riprende a correre, muovendo il volto sotto quei riccioli, tutti annodati come i vagabondi, e alzando le mani, in segno di arresa: non volevo starò più attento.
E Veronica scuote la testa: “Povera Maria: la farà dannare!”
Allora giù per lo stradone, a mangiar terra battuta e calore, fino alla linea del treno: con quel rumore di rimbalzo ad annunciarlo.
E Hugo e Paolo a sbraitare –passa, passa, passa- ma quel pallone precede solo lui e lui soltanto.
Il camioncino di latta arrugginita arriva al passo sostenuto permesso dalla discesa, proprio mentre il dribblaggio lo estranea dal mondo: gli piomba sul fianco, facendolo sussultare come un fantoccio, sbattendolo due volte: prima a terra e poi in aria.
“Tota!” le arriva tra le imposte, “Tuo figlio: alle rotaie!”
E Tota corre e s’inciampa e corre ancora.
Quando lo raggiunge è un bambino più piccolo dei suoi sette anni, con un vistoso taglio sul ginocchio destro. Moccio, lacrime, terra e sangue a sporcargli la bocca e il mento.
Due occhi che chiedono di non esser sgridato per l’imprudenza.
“Tu mi farai dannare!”sorride Maria, chiudendoselo tra le braccia: lui e il gioco che ancora imprigiona stretto.
Nel sole che sta tramontando il bambino chiede alla madre un bacio, promettendo di diventare un grande calciatore. Di diventare qualcuno.
“Tu sei già il mio ragazzo” è la frase che lo accarezza.
Il pallone ancora imprigionato stretto: le gambe penzoloni, verso casa, con la ferita sul ginocchio pulsante e calda sotto un raggio tiepido di sole argentino.
Era il 1967: Diego Armando Maradona , con il volto abbandonato sulla spalla della madre, si addormentava sognando.
Elisa Pincherle
Mi chiamo elisa e mi occupo di parole.
qualche volta le parole si occupano di me.
ma questo: spesso è irrilevante.
più di frequente imbarazzante.
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