
Una voce indimenticabile ora non avremo più la possibilità di sentirlo cantare, perchè stamattina si è spento dopo essersi aggravato ieri sera
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La sua forza e i suoi difetti
di Paolo Isotta
Vorremmo ricordare il tenore emiliano com'era ai suoi esordi, rimuovendo i detriti limacciosi accumulatisi con gli anni. Da tenore «di grazia », emulo di Tito Schipa, il quale è ovviamente irraggiungibile, cantava nel «mezzo carattere» dell'Elisir d'amore e della Sonnambula. Possedeva un timbro delizioso ch'era immagine di giovinezza, fiati lunghi e sani e quella splendida chiarezza di dizione che non l'ha abbandonato mai. Sotto quest'ultimo profilo, anche nei periodi meno felici, Pavarotti restava esempio d'una vecchia scuola italiana gloriosa: quando cantava si capiva ogni parola. Contemporaneamente praticò con lo stesso successo il repertorio «lirico»: a esempio, il duca di Mantova del Rigoletto. Lo si volle accostare a Beniamino Gigli e, ripeto, per bellezza di timbro e chiara dizione ne era un erede. Ho un prezioso ricordo d'un testimone oculare quanto autorevole. Interpretava questo ruolo al Massimo di Palermo sotto la bacchetta del grande e burbero Antonino Votto. Rientrando il Maestro in camerino dopo la recita, borbottava: «Nunn' è ccosa!». Perché un direttore di tal calibro era scontento d'un delizioso tenore? Pavarotti possedeva in radice difetti da definirsi in radice che i pregi della giovinezza dissimulavano ma non potevano cancellare. Egli era un analfabeta musicale, nel senso che non aveva mai appreso a leggere la notazione musicale: le opere doveva impararle a fatica nota per nota con un tapeur paziente. Questo è ancora il meno. Egli era a-ritmico per natura, non era possibile inculcargli se non in modo vago la nozione della durata delle note e dei rapporti di durata.
L'Opera lirica non è il canto del muezzin, è prodotto di accompagnamento orchestrale e richiede voci che s'accordino fra loro. S'immagini Pavarotti nel Sestetto della Lucia di Lammermoor... Per avere quest'eccezionale cantante si doveva passar sopra a molte, a troppe cose, e così si ricorreva a direttori d'orchestra abili nel «riacchiappare » il tutto quanto pronti a chiudere tutti e due gli occhi sul rispetto della partitura musicale. Questo difetto è con gli anni aumentato, giacché Pavarotti, il suo vero torto, non aveva e non voleva avere coscienza dei propri limiti. Col crescergli un ego caricaturalmente ipertrofico diventava sempre più insofferente delle critiche, anche solo degli avvertimenti affettuosi, come affrontava zone del repertorio che gli erano precluse dalla natura e dall'arte. Da qui alle adunate oceaniche nei continenti, cantando egli con amplificazione, alle manifestazioni miste con artisti leggeri, magari più musicali di lui, alle canzoni napoletane detestabilmente eseguite, al suo abbigliamento carnevalesco, ai prodigi di cattivo gusto, è stato tutto un descensus Averni: ogni passo ti tira il successivo. E pensare che aveva cantato col maestro Karajan.
07 settembre 2007
Oops! Paolo Isotta did it again.
Karajan è anche l'eroe del pezzo di Paolo Isotta su Pavarotti, Corriere della Sera di venerdì scorso, che tanta irritazione ha suscitato in alcuni lettori.
L'ho letto solo ora e, innanzi tutto, noto che è uno zuccherino rispetto al necrologio della Schwarzkopf nel quale Isotta, travolto dalla sua ira funestissima, se la pigliava con quelle "animulae vagulae blandae" (raffinati esegeti mi spiegarono dopo che intendeva dire suppergiù "froci") che lo avevano costretto a sopportare per cinquant'anni l'esistenza di dame Elisabeth, stonatina e cruccoparlante.
Il pezzo su Pavarotti fa quasi tenerezza nel suo crescendo da prof incazzoso, tra muezzin, direttori-vittima e un delizioso aneddoto su Antonino Votto che, non avesse avuto già abbastanza meriti di suo, qui ne aggiunge uno per Isotta ineguagliabile: gli parla in partenopeo corretto nonostante fosse di Piacenza o giù di lì. Isotta cade in deliquio quando incontra musicisti nati o educati all'ombra di San Pietro a Majella. Chissà, se nella sua fase pop Pavarotti avesse fatto più duetti con Pino Daniele magari gli sarebbe diventato più simpatico.
Isotta è un critico molto competente. Non so se sia anche molto antipatico. Di sicuro gli piace esserlo, un po' come a Sgarbi piace dire le parolacce. Ha la sua età, i suoi tic, i suoi partitini. Gode del suo stesso stile improbabile. E lì al Corriere, chiuso in un angolino di cui purtroppo non frega più nulla a nessuno, soffre.
Così, appena muore qualcuno che gli andava di traverso, si sfoga.
L'articolo su Pavarotti, se avesse voluto, avrebbe potuto essere interessante. Il tono da trombone bilioso lo rende invece roba da vecchietti al bar, tipo quelli che ce l'hanno ancora con Valcareggi per i sei minuti di Rivera col Brasile.
Finale lapidario di Isotta su Pavarotti: "E pensare che aveva cantato col maestro Karajan (sottinteso: e nonostante questo imprimatur divino è restato il pozzo di orrori di cui parlo nel mio dotto articolo). L'obiettivo di questa frase mi sfugge completamente.
A Karajan capitava di scegliere i cantanti perché erano adatti. Oppure perché non gli davano fastidio, e pazienza se erano sbagliatissimi, sfatti o semplicemente atroci.
Aumentando negli anni il suo status grottesco, vero pavarotto della bacchetta, aumentarono vertiginosamente anche le scelte del tipo cattivo.
Fa piacere che nelle loro collaborazioni in disco Pavarotti sia stato sempre nella categoria buona: ci hanno lasciato cose di una bellezza enorme.
Qual è il senso di scrivere un pezzo molto antipatico su un artista molto famoso e molto amato appena morto, e colpevole di "ego caricaturalmente ipertrofico", usando come esempio di Vera Arte un ego ancora più caricaturalmente ipertrofico? Forse c'è un problema diffuso di ipertrofie dell'ego.
Mestieraccio, il critico.
Non vi arrabbiate.
Fate una carezza ai vostri bambini.