il sottoscritto, altrove e cioè [url=http://www.fusiorari.org/fusiorari/html/modules.php?name=News&file=article&sid=441]qui[/url] ha scritto:Dopo una discreta caduta di stile come She hate me (Lei mi odia), film uscito nel 2004 e troppo demenziale per essere vero, Spike Lee torna alla regia dimostrandoci di sapere ancora raccontare una storia potente e al tempo stesso stuzzicante, ai livelli di quella (ottima, seppur molto diversa) che stava dentro La 25 ora (2002).
New York: quattro individui, volto coperto e tute di plastica da operai delle pulizie, fanno irruzione in una banca nell’ora di punta. Le decine di clienti in fila agli sportelli vengono tenuti sotto tiro e ricevono richieste e ordini apparentemente privi di senso. I presenti vengono radunati e fatti spogliare: ognuno dovrà indossare una tuta che lo renderà indistinguibile da tutti gli altri (malviventi compresi). Ora si tratta di attendere che la polizia, nel frattempo radunatasi fuori dall’edificio, si pieghi alle richieste dei criminali, e che prepari i mezzi per la fuga. Solo così agli ostaggi non verrà fatto del male: in caso contrario le conseguenze saranno gravi. Il capo dei rapinatori (Clive Owen) sembra sufficientemente spietato e deciso da mettere in pratica le proprie minacce. A condurre le trattative viene mandato il detective Frazer (un Denzel Washington onesto, ambizioso e innamorato) che molto presto si accorge di avere a che fare con una rapina molto strana.
Alla componente più semplicemente poliziesca presto si aggiunge una sottotrama politico-economica molto interessante. Succede con l’entrata in scena della misteriosa Madeline White (Jodie Foster), una broker che affianca la polizia nelle trattative con i rapinatori e che naturalmente ha uno scopo ben preciso: quello di tutelare gli interessi dell’anziano fondatore della banca. Quest’ultimo, infatti, filantropo di chiara fama sembra aver qualcosa da nascondere e soprattutto da perdere nel caso la rapina vada a buon fine. Gli sviluppi e la conclusione dell’azione moltiplicheranno i dubbi, e sarà difficile capire chi esce meglio da una vicenda così contorta.
Si è detto che siamo di fronte a un ottimo film, e questo per più di un motivo. Dal punto di vista tecnico vale la pena di sottolineare la riuscita pressoché totale della sceneggiatura: un meccanismo a orologeria che alterna sequenze movimentate ad altre più riflessive, sempre condite da dialoghi particolarmente efficaci e divertenti (nel senso più completo del termine). Allo stesso modo, l’alternarsi di alcuni flashback e flashforward (la preparazione del colpo e gli interrogatori della polizia) avvincono lo spettatore e imprimono grande dinamismo alla storia. Ottima è anche la regia, che aiuta e a sua volta è sorretta dalla bravura degli attori coinvolti (il cast è stellare).
Poi c’è una motivazione di ordine più filosofico: sappiamo che Spike Lee ha sempre avuto una particolare predilezione per la messa in scena dei contrasti etnici, soprattutto tra i bianchi e i neri che popolano le metropoli nordamericane. Anche questa volta lo scenario è il medesimo, e la folla che anima la pellicola è brulicante di individui dai tratti somatici e dalle culture più diverse, che salgono e scendono dal palcoscenico lasciando sempre un segno, raramente riducendosi a macchietta. O perlomeno sfruttando al massimo il poco spazio che spesso viene loro concesso.
Già ne La 25 ora avevamo assistito a uno scontro (verbale) particolarmente feroce costituito dal monologo di un Edward Norton in attesa di finire in galera. Alcune delle parole più pesanti erano rivolte a Osama Bin Laden e ai suoi amici talebani. Avevamo avuto la certezza che quasi tutto si era incrinato: che le città brulicanti di popoli e di tradizioni avevano imboccato una strada in cui la tolleranza e la convivenza (a lungo mantenute vive nel modo migliore possibile, e che già non era particolarmente incoraggiante) si avviavano a diventare merce rara.
L’assuefazione alle vicende di politica internazionale, e in particolare il moltiplicarsi delle guerre reali o minacciate, possibili o probabili sembra quasi averci fatto dimenticare che poco meno di cinque anni fa vivevamo in un mondo molto diverso. In Inside Man Spike Lee si premura di ragguagliarci sullo stato in cui versa l’arte dell’integrazione. Siamo di fronte a un esplosione di gente e di popoli, di mentalità e di visioni della vita troppo spesso lontane anni luce, anche per quello che riguarda gli aspetti più minuti della realtà. Siamo di fronte a una sorta di cecità isterica che troppo spesso ci impedisce di capire veramente chi abbiamo di fronte, che ci obbliga a fare di tutta l’erba un fascio. A confondere un indiano con un musulmano terrorista (presso una parte della società l’equazione è quasi naturale, e Lee ce lo mostra subito) nonostante la realtà, e la ragione, ci dicano che le differenze sono moltissime e la realtà più complessa di quello che ci appare.
Dunque, un film dalle molte anime: quella dell’ordine quasi perfetto che può appartenere solo a un certo tipo di criminalità idealista (ammesso che essa esista); quella della contraddizione tipica dell’animo umano, capace di gesti nobilissimi come di miserabili meschinità; e quella del caos, della con-fusione, dell’impossibile necessità dell’incontro tra opposti. E possiamo essere certi che almeno le ultime due saranno sempre alla base dell’unica realtà in cui possiamo e dobbiamo vivere. Sperando, di tanto in tanto, di incappare in un piccolo manuale per orientarci all’interno di essa: cosa che, almeno in parte, questo film è.