Troppo bravo: amava a tal punto la musica da odiarla. Poteva trionfare, volle negarsi.

Uno sconfitto: un eroe, gloriosissimamente sconfitto ma sconfitto. Un eroe moderno per definizione... Il mistero della riluttanza, fosse un perfezionismo ai confini del patologico, fosse nascosta insicurezza, fosse tedio, non faceva che accrescere un'attesa spasmodica.
Bellissimo uomo, ma più affascinante ancora che bello per il gran tratto signorile e i lampi indecifrabili, inquietanti, degli occhi, era stato per tutta la vita dominato dall’eros. Aveva bisogno di donne; invecchiando, di ragazze. Però s’era tenuto sempre la così ordinaria e modesta mogliettuccia slovena; da lei s’era rifugiato, lasciandosi andare in pantofole davanti alla televisione, i denti che gli cadevano, una sorta di acre voluttà oblomoviana entro di Lui: l’ultima ragazza l’aveva abbandonato. Pochi mesi fa, e non l’avrebbe creduto, l’aveva accompagnata, la mogliettuccia, all’ultimo soggiorno, in un modestissimo cimitero sloveno. «Qui nessuno riuscirà a trovarmi», disse dopo aver acquistato un loculo accanto alla brava donna, «neanche quei pochi ammiratori giapponesi che mi restano». Come tutte le anime intimamente tragiche, era un formidabile battutista e calembourista. Da quel giorno, Carlos Kleiber era rimasto completamente solo; non sapremo se in realtà tale non sia stato per l’intera vita.
E’ inutile adoperare qui concezioni cristiane. Quando si posseggono tutte le doti per trionfare, ma la moira , in latino moera , la parte di destino che il Destino ti assegna, è cattiva, si può avere il dovere di lottare secondo l’eroico modo che di sentire il mondo, perfettamente conoscendone l’inutilità, aveva l’Antico, ma è inutile. Pensiamo a Filottete. Perciò stiamo raccontando la storia di uno sconfitto: di un eroe, gloriosissimamente sconfitto ma sconfitto. E di un eroe moderno per definizione; non tutto d’un pezzo, non di statura titanica. Troppo complesso l’animo Suo, troppo morboso, a volte, il Suo pathos, troppo profonda la ferita misteriosa aperta e stillante ogni giorno sangue entro di Lui. «Le secret douloureux qui me faisait languir» del Sonetto di Baudelaire.
Si disse di Forster che il suo prestigio cresceva per ogni Romanzo che non scriveva. Non è una battuta affermare che quello di Carlos Kleiber cresceva quanto meno Egli montava sul podio. Il mistero della riluttanza, fosse un perfezionismo ai confini del patologico, fosse nascosta insicurezza, fosse tedio, non faceva che accrescere un’attesa spasmodica. Sicché, superato il solo periodo della Sua vita, diciamo dalla metà degli anni Settanta, nel quale Egli ebbe, quantitativamente parlando, una vita d’interprete quasi normale, ogni suo concerto, ogni Sua recita operistica rappresentavano un tale sfogo di quest’attesa spasmodica che l’esito ne sarebbe stato comunque trionfale, a prescindere dalla qualità. Va detto che, almeno a quanto io ne sappia, Kleiber è montato sul podio con esiti o altissimi o alti: mai diversi da questi. Poi incomincia il periodo del negarsi, del volere e disvolere, insieme col bisogno del «late biòsas», del «vivi nascosto». Nulla ciò ha da fare con l’imperativo filosofico. Qualcosa di morboso e misterioso insieme è nel di Lui sottrarsi alla curiosità altrui col rifugiarsi nella casetta popolare nella periferia di Monaco. O è sublime indifferenza? O è bisogno di punirsi? Di certo, Egli avrebbe potuto guadagnare somme incommensurabili e nascondersi dietro mura recintanti parchi, ville e piscine.
Il tedio. A questo non si pensa forse abbastanza. Kleiber era una fascio di contraddizioni. Non poteva non amare la musica in una maniera intensa e dolorosa, alla Tonio Kröger, ma ben poteva a volte odiarla, e capiremo il perché, a volte provare per lei un tedio infinito. Non solo per la patologica ristrettezza del Suo repertorio, che rappresenta una delle Sue oggettive sconfitte.
Altro è studiare nuovi capolavori, abbandonarsi all’emozionante gioia della scoperta, come accade per esempio a noi disgraziati critici a causa dello spropositato numero di partiture di che ci dobbiamo occupare in un ristrettissimo lasso di tempo. Altro è ripetere quelle sette, otto Sinfonie, quei cinque, sei titoli di teatro musicale. Da un lato tu sai di essere troppo bravo, sai che non ti si richiede alcuno sforzo per ottenere un risultato che va già ultra petita. Rovesci concezione e pensi che hai un tuo, personalissimo rapporto con ciascuno di questi pezzi musicali: e li valuti collocandoli così in alto da sapere che per quanti sforzi tu possa fare per una vita intera non arriverai ad accostarti nemmeno lontanamente a ciò che tu ritieni l’ideale esecutivo di ciascuno di loro. Ed ecco la radice dell’odio.
Sembra un mio elegante paradosso: in realtà i due sentimenti coesistono spessissimo in ciascun artista, in Lui dovevano a un grado estremo, distruttivo. E allora Egli pensava al secondo aspetto: alle notti insonni, campeggiando in Lui l’angoscia, nelle quali il tempo si divideva in frazioni sempre più lunghe mentr’Egli si interrogava sul come e sul perché di una cellula tematica, di una battuta: trovava dieci soluzioni ciascuna valida quanto le altre, ma a Lui era commessa, quel momento fatale, la scelta . Poi vedeva gli altri, vedeva ch’erano proseguiti imperturbabili sul terreno della routine, impermeabili a interrogativi e dubbi. Vedeva che le reazioni del pubblico e della critica erano le medesime; peggio, si convinceva ch’era giusto fosse così . Allora il tedio apriva in Lui le sue grigie ali immense: tanto, è lo stesso...
Poi, entro di Lui continuava a vivere il vecchio Laio. Si chiamava Erich Kleiber. Era stato uno dei più celebrati direttori d’orchestra dei suoi tempi. Alla sua gloria nulla era mancato. L’immensità del repertorio. La sicurezza in se stesso.
L’appartenere alla parte giusta, sempre, sia nelle prese di posizione artistiche che politiche. Aveva diretto innumerevoli prime esecuzioni assolute mentr’Egli, Carlos, credo, nessuna. Era la precisione, la perfezione, appena lievemente burocratiche.
Era Suo padre. Nelle Sue terribili notti, Carlos non riusciva più a ricordare se una volta, a quel quadrivio, l’aveva davvero ucciso, ovvero se dal cocchio Laio gli aveva riso in faccia con quella così tedesca e secca risata ritmata, quella del Capitano del Wozzeck , dicendogli che mai Carlos riuscirebbe a provocargli nemmeno una scalfittura. Quando ricordava di averlo ucciso, il ricordo si scindeva a sua volta in due corni terribili: uno portava un immenso senso di liberazione al quale sarebbe dovuta seguire la coscienza che ormai a Lui, Carlos, nulla era più vietato, nulla impossibile, nella direzione d’orchestra; l’altro era segnato da un rimorso che si tramutava in paralisi.
La congerie di paralisi vinse. Carlos sul podio era più grande del vecchio, cattivo, Laio, questo l’hanno compreso tutti: ma girava sempre in un circolo destinato a diventare vizioso. Qualità d’intuizione, di sensibilità, di analisi, di gestualità, di fraseggio, di scoperta del quid rivelatore, insomma di genio potenzialmente superiore a tutti gli altri, apparivano come un miracolo a chiunque, dirigesse Egli il Tristano o Il cavaliere della rosa o La Bohème o l’ Otello , le Sinfonie di Beethoven, nemmeno tutte, o quelle di Brahms.
V’era tuttavia un che di febbrile a fianco di quel sublime autodominio che sul podio sapeva trovare. Questo che di febbrile t’infondeva una leggera angoscia, quasi tu comprendessi che il Maestro avesse l’incubo di non portare a termine l’esecuzione, magari perché Laio si sarebbe materializzato prendendoGli di mano la bacchetta e continuando lui. Perciò dico che nel Suo pathos v’era talvolta un quid di morboso. Aggiungo: non sempre la qualità suprema dell’esecuzione, l’equilibrio assoluto dei rapporti era da Lui attinta. Aggiungo ancora: in Beethoven pochi hanno inteso dalla Sua bacchetta scaturire una maggiore energia, una maggior potenza esplosiva. Ma non v’è, se si pensa all’Introduzione della Quarta e della Settima , quel «senso del vasto spazio» che le fa essere ciò che sono. E a volte esecuzioni curatissime vedevano sovrapporsi come un geniale elemento improvvisatorio al piano sintetico.
L’immagine Sua che più mi ossessiona con una sorta di liberatorio gaudio, sebbene misto a un’indefinibile e lieve melancolia, è quella del direttore dei Valzer, delle Polche, dei Galops e delle Marce degli Strauss nel miracolo del Concerto di Capodanno. Dirigeva questi pezzi come ciò che sono, grandissima musica, ma insieme con una sprezzatura del gesto fatta di anticipi, «rubati» strepitosi, di cessazioni della battuta, e soprattutto d’una tale compenetrazione fisica con quei ritmi che sembrava vederlo librarsi a un metro da terra. Le registrazioni che ne restano di per sé sanciscono il loro scaturire da un genio della bacchetta: da un genio che, forse, per una volta, provò una strana gioia a farsi tutt’uno coi ritmi e le melodie.
Seppellita la mogliettuccia, Carlos preparò meticolosamente il riserbo della Propria morte e del Proprio interro. Non si uccise, ché chi lo ha conosciuto come un fratello mi dice che non ne avrebbe avuto il coraggio fisico. Ma si lasciò giorno per giorno morire. Riuscirci, e in così poco tempo, è dato a pochi. Forse una delle poche grazie elargiteGli dalla Sua cattiva moira.
Paolo Isotta
Corriere della Sera - 20 luglio 2004